domenica 31 marzo 2013

Marò liberi subito!


Lo scandaloso affaire dei due marò...


Intervista di Giovanna Canzano a Fernando Termentini, Generale della Riserva dell'Esercito Italiano e autore di numerosi scritti in materia.

…“Non tralascerei, inoltre, l’ipotesi che i due marò siano stati anche usati per risolvere “problemi di condominio” interni al governo e maturati nel corso di questi tredici mesi. Peraltro è impensabile che un presidente del Consiglio affermi che non era stato informato dal ministro Terzi sull’iniziativa di non far rientrare in India i due militari (Secolo IX – 22 marzo 2013, pag. 4) e il segretario De Mistura faccia dichiarazioni in contrasto con le decisioni del suo Ministro”… (Fernando Termentini)

Giovanna Canzano - Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono stati ‘riconsegnati’ all’India violando il Dettato costituzionale. Chi si ha assunto la responsabilità potrebbe aver commesso un reato?
Fernando Termentini – Credo proprio di sì in quanto il pubblicizzato impegno dell’India di non applicare la pena di morte come ripetuto varia volte dal ssegretario agli Esteri De Mistura e motivo premiante per far decidere il governo a farli rientrare in India credo sia ininfluente rispetto ai vincoli imposti dalla Costituzione per la non estradizione nei Paesi ove è prevista la pena di morte. Peraltro una dichiarazione del genere non cancella una legge ed in India è il codice penale a prevedere la pena di morte e un pseudo impegno dell’esecutivo non può condizionare il potere giudiziario.

L’articolo 698 del codice di procedura penale, vieta l’estradizione quando c’è il rischio, che l’estradato, può essere sposti ad un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali.
Esatto, e il disposto di legge non tutela solo i cittadini italiani ma tutti coloro che al momento della richiesta si trovano sul territorio italiano. A titolo di esempio neanche un Indiano potrebbe essere estradato in India se rischiasse di essere condannato a morte. I due Marò, invece, sono stati estradati tre volte. La prima a Koci il 18 febbraio 2012, la secondo facendoli rientrare al termine della licenza natalizia e la terza ora. Naturalmente queste mie sono affermazioni dettate dal buon senso non essendo un accademico di Diritto Penale, ma proprio per questo le ho affidate alla valutazione di esperti costituzionalisti per individuare la strada che permetta di attivare un’attenta valutazione delle specifico da parte della Magistratura. Un’iniziativa a cui credo parteciperanno moltissimi altri cittadini.

La garanzia formale che non verrà applicata la pena di morte è insufficiente alla concessione dell’estradizione, come da sentenza n. 223 del 27 giugno 1996 della Corte Costituzionale.
Esattamente, un impegno seppure ufficiale di un governo non può sostituire né tantomeno cancellare ciò che è sancito per legge dello Stato.

L’Italia non è in guerra, tantomeno non lo è con l’India, e la nota 5 al 4° comma dell’articolo 27, che compare sul sito del Quirinale, spiega e puntualizza che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali - “Protocollo n. 6 sull’abolizione della pena di morte” (adottato a Strasburgo il 28 aprile 1983), reso esecutivo con legge 2 gennaio 1989, n. 8 (G.U. 16 gennaio 1989, n. 12, suppl. ord.), nonché legge 13 bre 1994, n. 589 su “Abolizione della pena di morte nel codice militare di guerra” (G.U. 25 bre 1994, 250) la pena di morte non è più in nessun caso ed in assoluto prevista dal nostro Ordinamento».
Infatti, e non capisco come un attento europeista come l’attuale presidente del Consiglio usi due pesi e due misure nell’applicare le prescrizioni europee. Stretto osservatore delle regole se si tratta di garantire sicurezza alla stabilità economica bancaria e per non urtare la suscettibilità di alleati come la Germania ed altri Stati membri di cui importanti figure fanno parte di “Club” come la Bieldberg o la Trilaterale. Altrettanto impegno, invece di disattendere le raccomandazioni dell’Europa in tema di pena di morte. Un Unione che peraltro oggi attraverso suoi portavoce ha ammesso di non conoscere a fondo le problematiche relative agli avvenimenti che riguardano i nostri due marò, affermazioni che, se non vado errato, sono palesemente in contrasto con quanto varie volte assicurato dal premier Monti e dal ministro Terzi sul fatto che “l’Europa seguivano giorno dopo giorno le vicende e la baronessa Asthon era in costante contatto con il nostro premier”.

Perché riconsegnare i due marò e cosa nasconde questo provvedimento?
Una domanda a cui non è semplice rispondere. Sicuramente interessi di natura economica da parte italiana ma che potevano essere gestiti con precisi ammonimenti all’India interessata a consistenti aiuti economici europei. L’Unione infatti si è impegnata ad aiutare il governo indiano per ridurre la povertà del Paese attraverso una serie di misure che riguardano la sanità, l’eguaglianza dei sessi, l’accesso all’insegnamento primario con un progetto di Cooperazione destinato a durare nel tempo ed a cui partecipa l’Italia come Stato membro. Non tralascerei, inoltre, l’ipotesi che i due Marò siano stati anche usati per risolvere “problemi di condomino” interni al governo e maturati nel corso di questi tredici mesi. Peraltro è impensabile che un presidente del Consiglio affermi che non era stato informato dal ministro Terzi sull’iniziativa di non far rientrare in India i due militari (Secolo IX – 22 marzo 2013, pag. 4) ed il segretario De Mistura faccia dichiarazioni in contrasto con le decisioni del suo ministro. Se come dirigente dello Stato non fossi stato a conoscenza di iniziative importantissime di un mio funzionario non avrei dovuto fare altro che dare le dimissioni dall’incarico.

martedì 26 marzo 2013

Ungheria, la svolta rivoluzionaria



da azionetradizionale.com

Nonostante i suoi 48 anni Orbán è l’unico reduce dei movimenti di opposizioni anticomunisti degli anni Ottanta ancora in attività, ma soprattutto l’unico politico est-europeo che osa ancora opporsi all’idea di un’Europa post-comunista trasformata in gigantesca piattaforma commerciale al servizio della locomotiva tedesca. La formazione culturale e politica del primo ministro ungherese riflette la complessità del personaggio. Nato nel 1963 in una famiglia della tipica piccola borghesia di provincia, integrata e per nulla ostile al regime comunista, Orbán diventa un oppositore durante il servizio militare, compiuto nel 1981-82, negli anni plumbei della “piccola guerra fredda”, quando l’esercito ungherese, nonostante il paese soffra un pesante crisi di liquidità che lo porterà a un passo dalla bancarotta, continua a esercitarsi sull’ attacco al “nemico principale”, l’Italia. L’ottusità ideologica dei superiori e l’insensatezza della routine militare spingono il giovane Orbán a una rivolta generazionale ed esistenziale, prima ancora che politica.
Orbán e al suo movimento hanno un so che molto accattivante e paradossalmente rivoluzionario, i cui militanti non possono avere per statuto più di 35 anni e che viene considerato dalla “buona società” budapestina l’ala scanzonata della più rispettabile Alleanza dei democratici liberi (Szdsz), il partito dei dissidenti famosi in Occidente, da Gábor Demszky a György Konrád, da János Kis a Gáspár Miklós Tamás. Entrambi i partiti si collocano su una piattaforma ideologica confusa quanto accattivante: anticomunismo e filo-occidentalismo, sensibilità ai temi sociali ma liberismo economico, attenzione ai diritti umani e alle minoranze.
Orbán in un’epoca nella quale proprio a Bruxelles gli Stati membri difendono senza pietà i propri interessi nazionali.gode di una fama così negativa al di fuori dell’Ungheria? Il motivo di fondo sta nella diffusa ostilità pubblica (in privato molti politici europei concordano ma preferiscono non esporsi) ai postulati ideologici della sua svolta conservatrice, dall’impegno per le comunità ungheresi d’oltreconfine alla centralità della visione cristiana nei rapporti sociali, dalla difesa e promozione della famiglia tradizionale alla critica del relativismo culturale liberale.
La scelta del premier di centrodestra magiaro scatena l’ira della stampa internazionale e dell’Unione europea. L’Ungheria non piace all’Europa. E il sentimento sembra essere reciproco. Il premier Viktor Orban pensa più al proprio popolo, piuttosto che ai vertici dell’Unione europea. E questo non piace a Bruxelles. L’ultima eclatante e, secondo alcuni, “oltraggiosa” mossa attuata dall’amministrazione del leader del partito di centrodestra, Fidesz, è stata quella di nominare un nuovo Governatore per la Banca Centrale Ungherese (Mnb). Il suo nome è Győrgy Matolcsy, Ministro dell’Economia. E’ Orban stesso ad annunciare la nomina, tramite i microfoni di Kossuth Radio. Il Wall Street Journal aveva già ipotizzato da tempo che potesse avvenire questo stravolgimento all’interno dell’Ue, tanto che aveva intervistato Matolcsy sulle sue intenzioni.“La Banca centrale e il Governo dovrebbero cooperare tra loro” aveva risposto ad una delle tante domande l’ex Ministro dell’Economia.
Ovviamente, la scelta ha fatto adirare la stampa europea. “La Repubblica” definisce il gesto del premier magiaro come “una gravissima sfida ai princìpi del mondo libero e delle istituzioni economiche e finanziarie, dalla Banca Centrale europea al Fondo Monetario Internazionale”. C’era da aspettarselo. Nessuno in Europa vede di buon occhio i tentativi di nazionalizzazione bancaria, che Orban da tempo sta tentando di mettere in atto. E tutti hanno già cominciato a scalciare, strepitare e battere i piedi per terra. Ma, fino a prova contraria, l’Ungheria è uno Stato sovrano e il suo Governo è stato eletto liberamente e democraticamente dal popolo, che ad oggi ancora si rivela dalla sua parte. Tra l’altro, anche il Giappone sta attuando le stesse politiche del premier magiaro. Sempre secondo “La Repubblica”, Matolcsy prende il posto di Andras Simor, banchiere apprezzato da personaggi come Mario Draghi e dal Governatore della americana Fed, Bernanke, oltre che da vari capi di Stato, come Angela Merkel ed Obama. Insomma, un uomo di cui i nostri paesi si dovrebbero vantare. Ma ad Orban questo non interessa. D’altronde c’è un limite al volere della Germania, degli Usa o della troika. E il premier magiaro non è neanche molto incline a rispettare le direttive europee, dato che da quando si è insediato sia la stampa internazionale, sia il mondo delle istituzioni occidentali, non hanno fatto altro che dargli addosso.Insomma, l’inserimento di Matolcsy ha acquisito un sapore di nazionalizzazione che non piace a Bruxelles. Ma il nuovo governatore della Magyar Nemetzi Bank ha già dato dimostrazione di essere la persona giusta per questo compito. Sempre nell’intervista rilasciata al Wall Street Journal, alla domanda sulle politiche finanziarie europee, ha dichiarato che è un errore iniettare denaro nel sistema bancario a basso costo dalla Bce, a meno che non ci sia un fine specifico. Praticamente, si tratterebbe indirizzare i finanziamenti su obiettivi ben determinati. Insomma, quello che hanno detto anche alcuni personaggi qui da noi, in Italia. Attuare una sorta di “spending review”, ovvero ridistribuire i fondi europei con una maggiore specificità. Ma a questo “La Repubblica” non ha fatto caso. Per qualche strana ragione, non si è fatto caso a quando Mario Monti “consigliò” i nomi di Luigi Gubitosi e Anna Maria Tarantola per la dirigenza della Rai. Ma quando si parla di Ungheria si devono seguire le direttive europee. E su chi le sfida il colpo di martello deve cadere con maggiore violenza.
figurano la limitazione dei poteri della magistratura, della libertà di stampa e dell’autonomia finanziaria delle università. Il pacchetto comporta anche la potenziale “criminalizzazione” dei senzatetto, prevede che le chiese debbano collaborare con lo stato, blinda la natura eterosessuale del matrimonio e impone – sempre in via potenziale – ai laureati che hanno ottenuto borse di studio di lavorare in Ungheria per un determinato periodo di tempo.
La stampa estera denuncia quasi all’unisono queste misure. Mentre il ministro degli esteri Janos Martonyi,che ha appena inviato una lettera a tutti gli omologhi europei, tende a rassicurare e sottolinea l’eccessivo baccano mediatico. A Budapest c’è chi è sceso o scenderà in piazza contro Orban e prenderà invece le sue difese. Bianco e nero, buoni e cattivi. L’Ungheria continua a dividere e a dividersi.
E’ sempre più evidente che gli obiettivi della BCE e della commissione europea, che ha il potere esecutivo vero e proprio (mentre il parlamento europeo è soltanto un organo consultivo, senza potere legislativo), divergono sempre di più dalla Volontà Sovrana del Popolo e l’Ungheria ci da l’esempio, mettendo la propria banca centrale sotto controllo diretto del governo.
Tra le altre modifiche introdotte:
Si parte con la Corte Costituzionale, il cui potere di controllo sulle leggi approvate in Parlamento viene fortemente limitato. In pratica non potrà più discutere sui contenuti, ma solo sulla forma. Isupremi giudici magiari inoltre non potranno più fare riferimento alle sentenze emesse in passato: un azzerramento della giurisprudenza costituzionale.
Viene ridotta la possibilità per i partiti politici di fare campagna elettorale attraverso i media nazionali, mentre per i singoli cittadini potrà essere ulteriormente limitata qualora dovesse ledere la “dignità della nazione ungherese”. Vietati i dibattiti elettorali su radio e televisioni private.Se i clochard saranno trovati a dormire per strada saranno perseguiti penalmente. In oltre Orban ha introdotto una ordinanza secondo la quale, chi ha ricevuto durante i suoi studi sostegni da parte del governo non potrà abbandonare il paese per gli stessi anni della durata degli stessi. Questa è un’operazione atta a preservare e incrementare la forza lavoro, che solo i giovani laureati posso dare. Nient’altro che investire sul futuro del paese.
Una costituzione che rimette al centro la famiglia, che ridona sovranità alla nazione, che limita i poteri della finanza, che difende la propria terra dalla speculazione internazionale e dall’invasore straniero.
L’Ungheria di Viktor Orban fa paura. Fa paura ai vertici della finanza internazionale, ai burattini di Bruxelles, ai paladini della libertà e della democrazia.

Almodòvar, Vendola e quei ridicoli stereotipi sul cinico uomo di destra che ama Chuck Norris e Topolino…



da secoloditalia.it
Per comprendere fino in fondo perchè Bersani non parli a Berlusconi e preferisca suicidarsi con Grillo, basta semplicemente trascorrere una serata al cinema. Solo lì, nel buio di una sala, si può cogliere in pieno tutta la banalità dell’eterno confronto politico sinistra/destra in Italia, destinato, anche in questa fase, ad arenarsi sui pregiudizi, gli steccati ideologi, i conformismi di chi preferisce alimentare le contrapposizioni per sentirsi migliore dell’altro, piuttosto che ragionare con gente che semplicemente la pensa diversamente, magari nell’interesse del Paese. Per esempio, basta andare a vedere l’ultimo film di Pedro Almodòvar, “Gli amanti passeggeri”, una metafora sincera della crisi economica spagnola e di un Paese che resta sospeso perché non sa, e nessuno glielo spiega, dove atterrare con un carrello in avaria. Un’autocritica che non risparmia la politica e finanche la monarchia, con punture di sciabola bipartisan, il tutto in salsa brillante e scapestrata, costruito su personaggi prevalentemente gay e avventure e psicodrammi paradossali, con ampio spreco di sesso orale e kamasutra acrobatici. Non il miglior film di Almodòvar, che parla delle donne molto meglio di come parli del suo essere donna, ma l’ispirazione, e qualche scena, valgono il prezzo del biglietto. Soprattutto perché a nessuno viene da chiedersi se quel mondo sospeso, popolato da coppie “omo”, sia di destra, di sinistra, italiano o spagnolo. Semplicemente, piace o non piace, non è necessario cadere nella trappola della catalogazione politica. Il giochino che invece riesce benissimo al cinema italiano, disperatamente ancorato agli stereotipi, a fronte di un encefalogramma di idee e spunti completamente piatto.  Negli interminabili (e truffaldini) trailers che ti costringono ad attendere l’inizio del film in sala ben venti minuti oltre l’orario programmato, si può scoprire però che stanno per uscire nuovi film di registi italiani. Come “Outing, fidanzati per sbaglio”, su una giovane coppia di amici etero che per accedere ai finanziamenti della Regione Puglia (ooh di meraviglia del pubblico, guarda caso proprio quella di Vendola!) deve fingere di essere gay. Che ideona, che genialata. Che tristezza. Trattasi però di classico film politicamente correttissimo su cui si sprecheranno le carezze dei critici dell’Unità, del Fatto e del Manifesto. Ma ancor più “politically correct” è “Passione sinistra”, altro magistrale capolavoro di banalità italiana in uscita. Anche qui, tenetevi stretti, c’è un’ideona originalissima, eh: la donna di sinistra (Valentina Oldoini) , culturalmente impegnata, fidanzata con un intellettuale studioso e colto, paladina di battaglie civili, animalista, sensibile e un po’ rivoluzionaria, che perde la testa per un cinico yuppie di destra (Alessandro Preziosi): uno che inizia le telefonate senza salutare, sta tutto il giorno a far soldi con i piedi sulla scrivania, non legge manco l’elenco telefonico, è un po’ razzista,  arrogante, qualunquista e ovviamente fidanzato con una “simpatica biondezza” che inciampa sui congiuntivi. Il copione non teme il ridicolo quando prevede che la ragazza, dopo il colpo di fulmine per il cinico di destra, per conquistarlo si prepari degli argomenti interessanti per lui. «I miti dell’uomo di destra? Chuck Norris e Topolino, non devo dimenticarlo!». Da questa sprezzante e surreale rappresentazione della realtà, fino alle cronache di certi giornali che spiegano il pienone di piazza del Popolo di sabato come un’ipnosi collettiva di gente sfigata e incolta, il passo è breve. E spiega benissimo il disprezzo intellettuale della Annunziata per gli “impresentabili” di destra.

Parigi, un milione e mezzo in piazza contro le nozze gay: la polizia carica e la sinistra applaude


da secoloditalia.it

Il governo di centrosinistra francese conferma che non tollera opposizioni di sorta su nessun argomento: prova ne sia la manifestazione contro le nozze gay di domenica violentemente repressa dalla polizia di Hollande. Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, ha annunciato che sono sei i fermi confermati dalla polizia dopo i 98 effettuati negli incidenti al termine della manifestazione contro le nozze gay a Parigi. Valls – catalano naturalizzato francese che ha come merito principale quello di aver organizzato la campagna elettorale di Hollande – ha puntato ovviamente il dito contro militanti di estrema destra accusati aver lanciato bulloni contro le forze dell’ordine, il cui comportamento è stato – sempre secondo il ministro socialista – «controllato e professionale». Sono scesi in piazza in circa 300mila secondo la polizia di Hollande; erano invece quasi un milione e mezzo per gli organizzatori della manifestazione contro i matrimoni gay, la cui legge è in dirittura di arrivo. Per la seconda volta quest’anno, dopo la dimostrazione del 13 gennaio, parecchie centinaia di migliaia di persone hanno invaso il centro della capitale per rivendicare che il matrimonio può essere soltanto tra un uomo e una donna. Pronunciandosi quindi contro il via libera ai matrimoni gay da parte dell’assemblea nazionale, in attesa del via libera definitivo del Senato, atteso il mese prossimo, e la firma di François Hollande, per il quale tale questione è prioritaria. Come scrive il Figaro online, ci sono stati momenti di tensione: la polizia ha sparato lacrimogeni contro un centinaio di dimostranti che tentava di raggiungere i centralissimi Champs Elysees, considerati off limits dalla prefettura di Parigi che ha negato il permesso di manifestare sull’arteria più famosa della ville Lumière. Il corteo, partito con la Grande Arche de La Defense alle spalle, si è snodato per diversi chilometri lungo l’Avenue de la Grande Armee, dopo la Porte Maillot, fino all’arco di Trionfo dell’Etoile. Lì i Crs, i celerini parigini, hanno sparato lacrimogeni sull’avenue Foch, quella in cui si trovano alcuni tra gli appartamenti più prestigiosi della capitale. La questione è molto sentita in Francia, dove la popolazione è spaccata a metà: il governo però ha fatto sapere che nulla e nessuno potrà impedire che la legge passi. Il mese scorso, dopo una maratona di 10 giorni (e quasi 110 ore di dibattiti), oltre 5.000 emendamenti discussi e cortei di pro e contro nelle strade, i deputati hanno approvato la legge che autorizzerà le coppie dello stesso sesso a unirsi in matrimonio. La vittoria del sì è stata netta, con 329 voti a favore, contrari 229, 10 gli astenuti. Non è detto invece che passerà così ampiamente al vaglio del Senato, dove il dibattito comincerà il 2 aprile, ma dove la maggioranza di sinistra è più risicata e quindi il testo potrebbe subire qualche modifica ed essere costretto a tornare in assemblea. Inoltre è stata raccolta una petizione con oltre 500 mila firme contrarie.

martedì 19 marzo 2013

Si sale.


Il fenomeno Femen: non sarebbero militanti, ma ragazze pagate per fare spettacolo


da secoloditalia.it

Quanto vale il logo FF, il Fenomeno Femen, lo spettacolo delle attiviste dei blitz a seno nudo contro leader religiosi e capi di Stato (ultime performance italiane contro Ratzinger e contro Berlusconi)? Mediaticamente il successo è assicurato ma siamo davvero dinanzi ad un movimento che ha a cuore la condizione delle donne? Secondo il Venerdì di Repubblica le “sextremiste” di Femen sono davvero l’ultima provocante faccia del femminismo 2.0. In Italia non hanno ancora molto seguito, anzi sono tenute a distanza dalle veterane del femminismo che, del resto, non potevano prima applaudire la crociata di Lorella Zanardo contro i nudi in tv e poi benedire il topless delle Femen. Il Foglio ci informa che Femen è diventato “il club femminista più influente d’Europa, almeno sul piano dell’immagine. La loro società ha una pagina Facebook con migliaia di contatti, un account su twitter, un sito internet in tre lingue diverse: lì si trovano filmati, interviste, magliette (25 euro), colori per il corpo (un kit 70 euro), felpe, tazze e cappelli (dai 20 ai 60 euro)”. Un marchio, dunque, più che un’ideologia. Che dietro l’organizzazione girino soldi a palate, del resto, lo si sapeva. La notizia era rimbalzata anche in Italia tramite i social network italiani dopo che una giornalista ucraina si era infiltrata nel movimento e aveva rivelato che le attiviste di Femen sono pagate mille euro al giorno e che quando vanno in “missione” non si fanno mancare nulla. Chi paga? La giornalista ipotizza rapporti con due imprenditori tedeschi, Helmut Geier e Beate Schober e con un uomo d’affari americano, Jed Sunden. Secondo il quotidiano francese Le Matin a tirare i fili delle attiviste di Femen ci sarebbe ancora un uomo, Viktor Sviatski, un creativo trentenne che usa le nuove suffragette a seno nudo per diffondere e rendere più solido il marchio Femen, magari per farne un partito, o meglio per fare pressione sulla politica e sugli organi di informazione. La leader ucraina del movimento, Anna Hutsol, che vive ormai tra Kiev e Parigi dove le Femen sono trattate come star, è un’esperta dei meccanismi mediatici che amplificano un messaggio veicolato con parole-choc. Già, ma per conto di chi viene imbastita la messinscena?

SVEGLIA!

martedì 12 marzo 2013

Angelo Mancia e quella Volante Rossa ricomparsa dopo trent’anni per assassinare un ragazzo…


da secoloditalia.it 

«Faccio un appello molto forte alla procura perché non si rassegni: non è un problema solo delle famiglie o delle singole parti politiche ma della città. Non ci possiamo rassegnare a mezze verità, dobbiamo continuare, non solo a ricordare, ma anche a invocare giustizia». Lo ha detto il sindaco di Roma Gianni Alemanno dopo aver deposto una corona d’alloro davanti al civico 10 di via Federigo Tozzi, nel quartiere  Talenti dove, il 12 marzo del 1980 il segretario della sezione locale del Msi, Angelo Mancia, fu ucciso all’età di 27 anni. Per Alemanno, che ha raccontato di averlo conosciuto personalmente, «fu vigliaccamente aggredito, e di tanti omicidi avvenuti a Roma forse questo è quello su cui non c’é mai stata una pista né una traccia. Eppure sono convinto che per questo omicidio e per tutti quelli degli anni di piombo, scavando qualcosa può ancora saltare fuori». Alla cerimonia erano presenti anche la sorella di Angelo, Francesca e il presidente del IV municipio, Cristiano Bonelli.
Angelo Mancia era un attivista del Msi molto conosciuto a Roma. Fu assassinato la mattina del 12 marzo di 33 anni fa in quella che fu una vera e propria esecuzione. Era il segretario dell’attivissima sezione del Msi di Talenti di via Martini, zona dove abitava in via Federigo Tozzi 10. Angelo era il primo di tre figli di una famiglia che aveva un esercizio commerciale alimentare. Era più grande di otto anni rispetto ai suoi fratelli, due gemelli, Francesca e Luciano, rispetto ai quali era molto protettivo, da bravo fratellone maggiore. Sì, perché Angelo era conosciuto a Roma soprattutto per il suo carattere estroverso, allegro, un po’ guascone. Era sempre pronto a offrire (o a farsi offrire) un  ”baby” in piazzale delle Muse o da Giovanni, negli anni Settanta luoghi di ritrovo dei giovani di destra. Amava le moto, la musica, la pesca subacquea ma soprattutto la politica, questo attivismo esasperato 24 ore su 24 che in quegli anni caratterizzava i “fortini” missini nella capitale. Era amico di tutti, dal vigile urbano all’angolo di piazza Talenti al barista del bar Parnaso ai Parioli, e con tutti riusciva a stabilire un ottimo rapporto. Non era antipatico a nessuno, nell’ambiente. Tra gli avversari politici le cose cambiavano: in quegli anni, e anche adesso stando agli ultimi fatti di cronaca, essere di destra non era consentito, non era consentito non solo esprimersi ma neanche esistere: uccidere un fascista non era reato. E per Angelo e per molti altri è stato proprio così: dopo 33 anni i suoi assassini sono rimasti impuniti, anche se qualche mese fa la magistratura ha riaperto le indagini su diciotto omicidi politici degli anni di piombo rimasti impuniti, tra cui oltre a quello di Mancia anche a quello di Valerio Verbano, giovane di Autonomia operaia assassinato in circostanze atroci e di Stefano Cecchetti, ucciso da un commando rosso perché era davanti a un bar considerato ritrovo di fascisti, propria a Talenti. Le modalità dell’assassinio di Mancia fanno riflettere: due killer in camice bianco, come gli infermieri o i medici, hanno atteso Angelo sotto casa sua tutta la notte a bordo di un pulmino azzurro. Quando il giovane 27enne è uscito di casa come tutte le mattine per andare a lavorare alSecolo d’Italia, è stato colpito da alcuni colpi di pistola. Ha tentato di fuggire verso il portone di casa, che però si era chiuso dietro di lui. Raggiunto, uno dei killer lo ha finito con un colpa alla nuca. I due terroristi si sono poi dileguati su una mini minor rossa con a bordo un terzo complice che li ha portati via. Sempre una mini minor, però verde, era quella da cui due anni prima spararono, sempre nella zona, assassinando Stefano Cecchetti. Due ore dopo arrivò la rivendicazione aRepubblica: «Qui compagni organizzati in Volante Rossa. Abbiamo ucciso noi il boia Mancia. Siamo scesi da un pulmino posteggiato lì davanti». Ora, per chi non lo sapesse, il nome è stato ben scelto: la vera Volante Rossa era un gruppo di criminali che dal 1945 al 1949 insanguinarono l’Italia del Nord con omicidi politici particolarmente efferati, tali da spingere lo stesso Pci, che in un primo tempo l’aveva sostenuta, a prenderne le distanze. Ciò però non impedì ad alcuni esponenti comunisti di favorire la fuga in Cecoslovacchia di membri della Volante sotto processo. Tra i vari omicidi dei partigiani della Volante Rossa, ricordiamo quello del 4 novembre 1947 di Ferruccio Gatti, responsabile milanese del Msi. Il nome probabilmente fu scelto per dare una continuità per così dire ideale al gruppo di fuoco. Il processo contro la Volante Rossa nel 1951 si concluse con 4 ergastoli, ma tre degli imputati erano già fuggiti, mentre il quarto scontò la pena fino al 1971 quando fu graziato dal presidente Saragat. Gli altri tre, invece, ricevettero la grazia da Sandro Pertini nel 1978. I suoi funerali, in piazza Esedra, furono un po’ movimentati, con cariche della celere contro i giovani di destra. Come la vita di Angelo.

sabato 9 marzo 2013

Anniversari. Bobby Sands: patriota irlandese, martire per la libertà contro ogni occupazione



da barbadillo.it
È difficile non cedere alla retorica quando si scrive di Bobby Sands. È difficile perché, che lui ne fosse consapevole o meno, il suo nome è entrato di diritto nel novero dei grandi patrioti, dei grandi militanti politici, dei grandi combattenti per l’idea. In una parola, il suo nome appartiene all’elenco degli “eroi” d’ogni tempo e luogo, al di là delle appartenenze geografiche, ideologiche, temporali.
Se non si fosse lasciato morire di fame nei “blocchi H” del famigerato carcere nordirlandese di Long Kesh, oggi Bobby compirebbe 59 anni. Era nato il 9 marzo del 1954 ad Abbots Cross, un quartiere periferico di Belfast, ed era poi cresciuto a Rathcoole, sobborgo a maggioranza protestante dal quale la famiglia Sands dovette andarsene a causa delle intimidazioni. Se fosse sopravvissuto alla galera britannica forse oggi sarebbe al fianco di tanti compagni dell’Ira, che hanno abbandonato le armi per promuovere il processo di pace nell’Ulster. O magari starebbe con quelle frange che ancora lottano contro l’occupazione inglese, nessuno può saperlo con certezza.
Di sicuro c’è che se il cuore di Bobby Sands ha cessato di battere il tragico 5 maggio del 1981, quando lui aveva appena 27 anni, il suo spirito non è morto. Perché, come lui stesso scriveva, «Non c’è nulla nell’intero arsenale militare inglese che riesca ad annientare la resistenza di un prigioniero politico repubblicano che non vuol cedere: non possono e non potranno mai uccidere il nostro spirito». A distanza di 32 anni da quella primavera di sangue, il suo volto sorridente campeggia ancora sui murales colorati della Belfast cattolica e compare su decine di libri, dedicati a lui e agli altri martiri irlandesi dello sciopero della fame nelle carceri britanniche. Il suo nome è ancora cantato nelle ballate che si ascoltano nei pub di Dublino e Derry e gli sono stati dedicati ben tre film, l’ultimo dei quali – Hunger di Steve McQueen – è uscito pochi anni fa.
Ma l’esempio di Bobby va al di là dei confini, vive anche nel ricordo di migliaia di giovani che in quel lontano 1981 si affacciavano al mondo della politica, in un’Italia ancora dilaniata dal terrorismo e dalla violenza degli opposti estremismi, dalle stragi di Stato e dalla lotta di classe. Nel clima avvelenato della strategia della tensione, del “tutti contro tutti”, della guerra civile permanente, l’esempio di quel giovane irlandese che si lasciava morire per svelare al mondo il volto brutale dell’imperialismo in tailleur e cappellino della signora Thatcher, sembrava una boccata d’aria pulita.
«Prati e scogliere dell’Irlanda lassù a Nord, gente come roccia di Belfast, e la croce d’oro di una fede che vivrà, cornamuse e mitra son per Sands», cantava la Compagnia dell’Anello. E nelle sezioni missine e nei circoli della destra radicale, all’epoca non troppo diverse dai “covi” repubblicani di Belfast circondati da filo spinato e telecamere a circuito chiuso, molti accostavano il nome di Bobby a quello dei caduti “neri” nei tristi Anni Settanta. Non che si volesse dare la patente di “fascista” a chi non lo era, ma in qualche modo il microcosmo degli “esuli in patria”, per usare una felice espressione di Marco Tarchi, si riconosceva pienamente nella lotta dei repubblicani irlandesi: cattolici, socialisti, nazionalisti e tradizionalisti.
Ci fu persino chi, nel periodo confuso e caotico dello “spontaneismo armato”, provò ad avvicinare l’Ira per offrire collaborazione militare e logistica. Collaborazione cortesemente respinta al mittente, anche perché la principale organizzazione guerrigliera d’Europa non aveva certo bisogno dell’aiuto di pochi cani sciolti in latitanza, visto che poteva contare sull’appoggio di un intero popolo e sui finanziamenti della potente comunità irlandese degli Usa.
Bobby Sands se ne andò in una lurida cella del carcere di Maze-Long Kesh, dopo 66 giorni di sciopero della fame. Uno sciopero serio, non alla Pannella. Dopo di lui si spensero nell’ordine Francis Hughes, Ray McCreesh, Patsy O’Hara, Joe McDonnell, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McElwee e Mickey Devine. Tutti prigionieri politici, arrestati in quanto membri dell’Ira o dell’Inla (Irish National Liberation Army). Era stato proprio Bobby, nominato officer commanding (ufficiale comandante) dei detenuti di Maze, a decidere questa strategia: lui cominciò a rifiutare il cibo il 1° marzo e  gli altri prigionieri avrebbero dovuto unirsi allo sciopero ad intervalli regolari, allo scopo di aumentare l’impatto “pubblicitario” dell’iniziativa. Infatti i dieci detenuti politici morirono nell’arco di molti mesi: l’ultimo, Mickey Devine, il 20 agosto del 1981.
Malgrado l’ondata di sdegno internazionale contro Londra, il governo britannico non cedette e lasciò morire i dieci prigionieri repubblicani, che chiedevano solo un trattamento carcerario migliore, il riconoscimento dello status di detenuto politico, la possibilità di indossare abiti civili e non l’uniforme da galeotto e di scrivere e studiare la lingua gaelica. Ma come spesso accade, anche un granello di sabbia alla lunga può inceppare l’ingranaggio. E ora si può tranquillamente affermare che il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni non è stato inutile, perché da allora il mondo ha guardato con occhi diversi alla “questione irlandese” e lo stesso governo britannico ha dovuto modificare la propria strategia. Persino all’interno dell’Ira quegli episodi hanno prodotto una nuova concezione politica, dando fiato all’ala più disposta alla trattativa.
Come molti altri nordirlandesi, la palestra politica di Bobby Sands era stata la strada. Abbandonati gli studi, diventa un apprendista capo cantiere, finché non è obbligato a lasciare il lavoro, sempre per le pressioni dei lealisti. A diciott’anni aderisce all’Ira, viene arrestato e rimane in carcere senza processo fino al 1976. Quando esce si trasferisce nei quartieri occidentali di Belfast e diventa attivista della comunità cattolica e repubblicana. Nel ’77 viene di nuovo arrestato e anche se le accuse più gravi vengono lasciate cadere è condannato a 14 anni di prigione per detenzione d’armi: nell’auto su cui viaggiava con altri quattro amici era stata infatti trovata una pistola.
Sconta la pena nel carcere di Long Kesh, chiamato anche Maze, e insieme con gli altri detenuti repubblicani dà vita a una lunga serie di battaglie per ottenere un trattamento migliore. Sono gli anni della “blanket protest” (indossano solo una coperta perché si rifiutano di mettere l’uniforme da carcerato), della “dirty protest” (tutti i bisogni fisiologici vengono espletati in cella) e dei primi scioperi della fame. In questo periodo Bobby s’improvvisa poeta e giornalista, scrive di nascosto su rotoli di carta igienica e con curiosi stratagemmi riesce a far uscire i suoi articoli dalla prigione, rivelando al mondo intero le vergognose condizioni di vita a Maze.
I suoi scritti verranno raccolti nel volume “Un giorno della mia vita”, pubblicato in Italia da Feltrinelli, nel quale denuncia gli abusi cui sono sottoposte le persone arrestate sulla base dello Special Powers Act, che di fatto sospende i diritti civili:  «In questi centri di polizia staliniana i sospettati potevano aspettarsi torture psicologiche come la roulette russa, pestaggi condotti al buio, minacce verso i propri familiari e uso di droghe. Più comune era la tortura fisica, come costanti percosse subire calci e pugni senza tregua».
Nel marzo dell’81 i detenuti cattolici cominciano il secondo sciopero della fame. Per salvare Bobby il Sinn Fein (l’ala politica dell’Ira) riesce a farlo eleggere al Parlamento di Westminster, ma il governo di Londra si rifiuta di scarcerarlo, sancendone di fatto la condanna a morte. Al suo funerale partecipano 100 mila persone e per la Gran Bretagna a livello d’immagine è un’enorme sconfitta: l’Ira fa incetta di nuovi volontari, dagli Stati Uniti affluiscono milioni di sterline raccolti nelle comunità irlandesi d’oltreoceano e in Irlanda anche i nazionalisti più tiepidi e moderati si schierano con le posizioni dell’Ira. A New York i portuali bloccano per 24 ore le navi britanniche, a Milano in 5 mila bruciano in piazza l’Union Jack, a Gand gli studenti irrompono nel consolato britannico e a Parigi in migliaia sfilano dietro l’immagine di Sands. La città francese di Le Mans gli dedica una via, così come Teheran, dove via Winston Churchill viene ribattezzata Bobby Sands. Aveva ragione Bobby: nessuna arma può uccidere lo spirito di un combattente irlandese.

L'Ilva, tra ambiente, lavoro e sviluppo

giovedì 7 marzo 2013

‘L’appuntamento dei crisantemi’



da azionetradizionale.com
Tempo fa lessi ‘Lezioni spirituali per giovani samurai’ di Mishima, un libro molto interessante (anche perché conteneva il manifesto della sua ‘Associazione degli scudi’ e il proclama  da lui pronunciato prima del celebre suicidio) sull’etica dei samurai, ottimo per trarre degli esempi guerrieri di vita. Nel capitolo ‘Sul mantenere la parola data’, Mishima critica innanzitutto la moderna società contrattuale, nella quale è radicata una latente diffidenza verso gli esseri umani: si tende infatti a scrivere e firmare tutto, in modo che si evitino azioni nocive da parte dell’altro. Le persone, infatti, oggi agiscono (o almeno cercano di farlo) nei limiti di una legge che temono di trasgredire solo per averne ripercussioni dirette e per questo l’autore afferma che il mantenere le promesse o l’essere puntuale non ha in sé un’importanza determinante. Se una persona non mantiene una promessa detta oralmente, non sarà punita dalla legge. Ma è qui che entra in gioco la Lealtà, una nobile virtù che si basa sulla buona fede di chi si prende un impegno e che va oltre i profitti materiali. Per fare un esempio di quanto sia importante nella Tradizione dei samurai, Mishima ricorre ad un racconto che, essendo incuriosito dal leggerlo integralmente, mi sono andato a comprare nella raccolta dove è situato. Si tratta de ‘L’appuntamento dei crisantemi’ di Akinari Ueda, scrittore giapponese vissuto dal 1734 al 1809, contenuto nel libro ‘Racconti di pioggia e di luna’. La breve storia narra di un sedicente studioso, Samon, che vive rifiutando ogni agiatezza e che un giorno si reca da un tale del villaggio. Mentre conversano sente un lamento e il padrone di casa gli riferisce che c’è un samurai molto malato che ha chiesto di poter alloggiare lì per una notte. Samon intende fargli visita e, nonostante le avvertenze del padrone circa eventuali ripercussioni sulla sua salute, il ragazzo risponde sorridendo che vita e morte dipendono dal Cielo e apre la porta. Appena entrato, si mette a completa disposizione del samurai malato e dice di ospitarlo finché non sarà completamente guarito. Il samurai, Akana, gli racconta di essere fuggito in quanto era stato effettuato un assedio al castello in cui insegnava e gli era stato detto da un generale poco coraggioso presso il quale successivamente ha effettuato servizio, di rimanere lì e disinteressarsi  alla vicenda, cosa che Akana non poteva tollerare, e di essersi ammalato durante il viaggio. Nei giorni successivi, Samon e Akana instaurano una forte amicizia che porta Akana a diventare suo fratello, con il consenso della madre di Samon. Akana, però, deve partire per dovere, ma promette che il giorno della festa dei crisantemi, il nono giorno del nono mese, tornerà. Il giorno stabilito, Samon si organizza per preparare una calorosa accoglienza per il fratello acquisito, che però non arriva. La sera, però, compare dinnanzi a lui spiegandogli però di essere solamente uno spirito: egli, infatti, era tenuto prigioniero e non aveva alcuna possibilità di uscire. Per mantenere fede alla parola data, dunque, decise di togliersi la vita perché ‘un uomo non può percorrere mille miglia in un sol giorno ma uno spirito può farlo’.
Andrea P.

Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano"

da ilgiornale.it

Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo"


Simone Cristicchi, cantautore romano, sta lavorando a un'opera che già fa discutere. Il 22 ottobre debutterà a Trieste il primo spettacolo teatrale sul dramma delle foibe.

Perché questo tema?
«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».

Di cui pure lei sapeva poco?
«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».

Eppure lei ha fatto studi umanistici.
«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».

Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?
«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».

Quando è nata l'idea dello spettacolo?
«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».

Poi?
«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».

Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?
«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».

Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.
«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».

Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?
«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».

E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?
«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».

Ci anticipi qualcosa.
«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».

Una faida tra compagni.
«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».

Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?
«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».

Traditore? E perché?
«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».

Invece?
«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».

Che lei vuole riattaccare.
«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».

martedì 5 marzo 2013

L’inchiesta. Riaperte le indagini su Acca Larentia. Sulle orme della misteriosa “Skorpion”


È notizia di queste ore che sono state riaperte le indagini sulla strage di Acca Larentia, dove nel 1978 un commando di sinistra assaltò la sede locale del Msu uccidendo Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta (e dove poi fu colpito a morte da un ufficiale dei carabinieri un altro giovanissimo militante del Fdg Stefano Recchioni). Tra le prove che sono nuovamente al vaglio degli inquirenti ci sono il nastro con la rivendicazione della strage e la mitraglietta skorpion che sparò quel giorno, ritrovata anni dopo in un covo delle Brigate Rosse.
Nel dare questa notizia vogliamo riproporvi l’inchiesta di Tommaso Della Longa, uscita sul quotidiano Libero il 6 gennaio 2012 dal titolo “Lo sbirro, il cantante, gli 007: i misteri della strage di missini” dove venivano ricostruite proprio le orme dello scorpione, ovvero di quella maledetta mitraglietta. Elementi che potrebbero essere utili anche agli inquirenti, elementi ben noti e chiari, messi nero su bianco ormai più di un anno fa. Riportiamo qui sotto l’inchiesta:
Dodici colpi al secondo. Utile negli spazi ristretti, come i vicoli. Grazie al calibro 7,65 browning il rinculo è limitato. Arma versatile, si può portare al fianco come una pistola comune. Ecco in poche
parole, la descrizione della “Skorpion Vz61″ovvero la pistola mitragliatrice di fabbricazione cecoslovacca che ha lasciato una lunga scia di sangue nell’Italia degli anni di Piombo: facile da nascondere e micidiale sulle brevi distanze, è stata uno dei simboli delle Brigate Rosse. Proprio seguendo le orme dello scorpione si possono scoprire importanti novità su quegli anni.

Una di queste è la strage di Acca Larentia. Era il 7 gennaio 1978 quando, alle 18:23, un commando armato assalta la sede locale dell’Msi, facendo fuoco su un gruppo di ragazzi appena usciti dalla sezione. Due giovani di 19 e 18 anni, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, vengono assassinati. Poche ore dopo, durante gli scontri tra forze dell’ordine e militanti di destra, viene ucciso da un capitano dei Carabinieri un terzo giovane, il diciannovenne Stefano Recchioni. A uccidere Bigonzetti e Ciavatta sarà proprio una raffica della famigerata Skorpion, anche se gli investigatori lo capiranno in ritardo di otto anni, grazie a una perizia balistica commissionata dalla Procura di Firenze. L’attentato alla sede missina viene rivendicato dai Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale, una delle tante sigle della sinistra armata. Forse una denominazione usata, all’epoca, per rivendicare le azioni delle squadre armate dei “Comitati comunisti”.
Scia di sangue
Lo stesso tipo d’arma è usata solo qualche mese dopo per assassinare il Presidente della Dc, Aldo Moro. Quella che sparò ad Acca Larentia, invece, ucciderà anche il professor EzioTarantelli (1985), l’ex sindaco di Firenze Lando Conti (1986) e il senatore democristiano Roberto Ruffilli (1988). Solo dopo quest’ultimo omicidio si ferma la scia di sangue dell’arma che viene ritrovata in un covo delle Brigate Rosse a Milano e ricollegata a tutti gli omicidi precedenti.
A questo punto della storia, compaiono sulla scena alcuni personaggi che farebbero pensare a un thriller pulp all’italiana e che, invece, sono legati a vario titolo a quell’arma pericolosa e letale: un commissario di Polizia, un cantante famoso, un noto brigatista, un’armeria di Roma, uno spacciatore di periferia con ambizioni rivoluzionarie e addiritttura i servizi segreti. Ma andiamo con ordine.
L’eccidio di Acca Larentia nell’ultimo anno è tornato di stretta attualità, grazie a libri, pubblicazioni e incartamenti tirati fuori dagli archivi storici che hanno messo in fila una serie di fatti mai indagati fino in fondo. Nel primo libro dedicato all’argomento (“Acca Larentia, quello che non è stato mai detto”, Edizioni Trecento), Valerio Cutonilli e Luca Valentinotti, teorizzano l’esistenza di un’unica struttura operativa dietro a omicidi e stragi compiuti a Roma contro la destra negli anni ’70. Secondo i due avvocati, dietro a sigle come quella che ha rivendicato la strage dei giovani del Fronte della Gioventù, ci potrebbe essere la prosecuzione militante del livello illegale di Potere Operaio. Una struttura di cerniera finalizzata alla costituzione del partito armato. Tale struttura era particolarmente attiva lungo l’intera
direttrice di Roma Sud, sviluppandosi nell’intera area compresa tra l’Alberone e i Castelli Romani, e rientrava in un preciso disegno egemonico della sinistra antagonista. A essa sono riconducibili numerose sigle che nascono e muoiono nel giro di qualche azione, con l’idea di ampliare la zona grigia di violenza e illegalità. E che nel caso di Acca Larentia potrebbero forse essere risultate utili a  portare scompiglio per arrivare all’obiettivo finale, ovvero Aldo Moro.

Dagli archivi online della Commissione parlamentare istituita per far luce sul rapimento e l’omicidio dello statista Dc siamo riusciti a scoprire un carteggio, fatto di richieste e informative, tra la Digos e l’ufficio istruzione del Tribunale di Roma, datato aprile giugno ’79, concernente due persone al di sopra di ogni sospetto. Il cantante famoso, Enrico Sbriccoli in arte Jimmy Fontana, e il funzionario di polizia, Antonio Cetroli, responsabile del commissariato Tuscolano, quartiere quest’ultimo dove si trova via Acca Larentia. Così si scopre che la Skorpion dal 1971 era di proprietà di Fontana che sostiene di averla ceduta nel 1977, a pochi mesi dall’attentato, al commissario Cetroli. I due si sarebbero conosciuti nell’armeria Bonvicini dei
quartiere Prati di Roma che è anche frequentata da un «simpatico cliente», a detta dei proprietari, il sig. Marchetti, nome d’arte del noto brigatista Valerio Morucci. Caso vuole che la Skorpion venga ritrovata proprio in un covo delle Br, seppur molti anni dopo.

Versioni diverse
E che Gennaro Maccari, il “quarto” uomo del sequestro Moro, nell’audizione alla Commissione abbia riferito di due diverse Skorpion nelle mani brigatiste. Se in prima battuta, il commissario Cetroli smentisce «con perentoria assolutezza» di aver mai incontrato Fontana in vita sua, in seconda battuta avrebbe ammesso di averlo conosciuto nell’armeria Bonvicini, ma di non aver comprato l’arma. Cetroli, tra l’altro, sarebbe stato già noto agli inquirenti per aver avuto -a Roma sud- scambi, acquisti e cessioni di armi con alcune persone, tra cui tale Giuseppe Nori, «sottoposto a procedimenti penali per fatti di criminalità comune». Cetroli negli anni fa carriera e all’inizio degli anni ’90 è un alto funzionario della Questura di Roma. Ma le ombre sulla cessione di quell’arma non sono mai state diradate. Per questo, nel giugno del 2011 il deputato Pdl Francesco Biava presenta un’interrogazione parlamentare, chiedendo di fare chiarezza sulla vicenda. Il parlamentare chiede ai ministri competenti se siano stati mai fatti accertamenti sui conti bancari che risultavano intestati nel ’77 a Jimmy Fontana. Quest’ultimo, infatti, aveva dichiarato alla Digos che la Skorpion gli era stata pagata tramite assegno. Dunque, una banale verifica dei movimenti bancari del cantante avrebbe permesso di scoprire se a mentire fosse stato lui o il commissario Cetroli. Finora nessuna risposta.
In compenso però, gli archivi della Commissione Moro sono spariti dal web. Mentre gli archivi informatici scompaiono, nuovi personaggi conquistano la scena. Solo ultimamente, infatti, siamo venuti in possesso di un documento riservato e assolutamente inedito del Sid (Servizio Informazioni Difesa le cui competenze sarebbero state a brevissimo divise tra Sisde e Sismi), con data 27 gennaio 1978, che a distanza di neanche un mese dalla strage di Acca Larentia, fa già un nome per le indagini. Si tratterebbe di un «elemento estremista in cerca di armi e spacciatore di droga».

Una persona che nel gennaio ‘79 era sconosciuta all’opinione pubblica ma che negli anni successivi avrebbe fatto parlare di sé. Costui all’epoca risiedeva a poche centinaia di metri dal commissariato Tuscolano zona Cinecittà dove lavorava Cetroli. Negli anni successivi, l’uomo chiamato in causa dal Sid avrà gli onori delle cronache per essere uno dei fondatori dei gruppo “Guerriglia comunista” e dei “Nuclei antieroina”, sigle riconducibili alla già menzionata struttura di cerniera che hanno rivendicato gli omicidi nella zona di Roma sud di alcuni spacciatori, veri o presunti, nel nome del proletariato. Ma che forse nascondevano anche banali faide interne nel mondo dello spaccio della droga. Dopo essere riparato in Spagna, insieme ad altri fiancheggiatori delle BR, viene arrestato al confine franco spagnolo proprio perché stava tentando di passare con un carico di droga. Nel giugno del ’90 la polizia francese lo consegnerà a quella italiana.
Qui si chiude l’ennesima puntata di una storia che sembra non riuscire mai ad arrivare all’epilogo. Il reato di omicidio, come è noto, non cade in prescrizione e forse per questo le ultime notizie su Acca Larentia potrebbero aver generato una certa fibrillazione. Il noto pentito BR Antonio Savasta nel libro intervista di Nicola Rao (“Colpo al cuore”, edizioni Sperling & Kupfer) attribuisce l’attentato a un gruppo armato che agiva sotto la direzione delle BR, un’affermazione che perlomeno in parte darebbe ragione alla teoria di Cutonilli e Valentinotti.
Nervosismo
Anche Savasta menziona Cinecittà e allude a un gruppo che avrebbe agito sotto la guida della brigata territoriale di Torre Spaccata. Appena uscito il libro, un altro ex BR, Sandro Padula, si affretta ad accusare sul web Savasta di dire il falso. Padula, ex brigatista di Torre Spaccata, tiene a ricordare che la sezione missina di via Acca Larentia era ubicata in una zona lontana da Cinecittà e da Torre Spaccata: quella dell’Appio Tuscolano.  Se quindi le responsabilità materiali continuano a essere rimpallate lungo la direttrice di Roma sud, la cortina fumogena su esecutori e mandanti diventa sempre più intricata.
Ora che abbiamo in mano tutte queste nuove informazioni, abbiamo anche nuove domande. Come mai i servizi segreti militari si interessarono alla strage di Acca Larentia? Qual è il ruolo dell’ex militante di Guerriglia Comunista? Chi ha mentito tra Fontana e Cetroli? Com’è finita la Skorpion in un covo delle BR? Cosa succedeva in quell’armeria di Prati? L’unica cosa certa è che le orme lasciate dallo scorpione rimangono cruciali e che con il passare del tempo, paradossalmente, diventano sempre più visibili.
 A cura di Tommaso Della Longa