domenica 11 settembre 2016

Ahmad Massud, l’eroe afghano massacrato dai terroristi due giorni prima dell’11 settembre


da corriere.it

Quindici anni fa moriva assassinato sulle montagne del Panjshir il leggendario leader che combattè prima i sovietici e poi i talebani. La sua figura resta ancora oggi un punto di riferimento per chi sogna un Afghanistan libero

Una visione profetica

«I governi europei non capiscono che io non combatto solo per il mio Panjshir, ma per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini. Ve ne accorgerete!». Si direbbero profetiche le parole del condottiero afghano ucciso in un agguato il 9 settembre del 2001, a soli due giorni di distanza dal terribile attacco all’America che sconvolse il mondo e mutò per sempre gli equilibri internazionali. E certo Massud aveva visto da vicino la possibile deriva dell’integralismo islamico con l’avvento dei talebani nel suo amato Afghanistan, la patria già profondamente divisa da contrasti etnici e spezzata dall’invasione sovietica, il Paese senza una guida né disegno unitario, bisognoso di una leadership forte, che solo un condottiero come lui, «Leone del Panjshir», avrebbe potuto offrire. Proprio lui, nato nel 1953 in un villaggio nel Nord del Paese da una famiglia sunnita di etnia tagika, studente del prestigioso Lycée Esteqlal di Kabul e poi del politecnico cittadino, attivista dei Giovani musulmani fedeli al professor Burhaddin Rabbani, primo germe dell’opposizione all’influenza sovietica che iniziava a serpeggiare nel Paese. Negli Anni ’70 la scelta di diventare combattente, guidato nella sua battaglia dal sogno di vedere il proprio Paese libero, sovrano e indipendente, nel rispetto delle antiche tradizioni culturali e spirituali della sua terra e, naturalmente, secondo i precetti dell’Islam. Un uomo integro, che amava la poesia e gli scacchi, un leader carismatico seguitissimo dal proprio popolo e oggi amaramente rimpianto, un musulmano osservante ma lontano dal fondamentalismo, uno stratega militare molto diverso dai tanti signori della guerra che tra gli Anni ’70 e 2000 hanno popolato l’Afghanistan, e proprio per questo amato e protetto dai propri soldati, a cui diceva: «Siete miei soldati, comportatevi con onore. Trattate la gente con cortesia. Non tollero né violenze né stupri, né rapine. Sapete quel che vi aspetta in caso contrario» La sua morte è stata oscurata dall’immane tragedia delle Twin Towers, ma molti osservatori hanno visto nella quasi contemporaneità dei due eventi ben più di una semplice coincidenza, ascrivendoli entrambi alla macchina terroristica di Al Qaeda e a un piano comune per destabilizzare gli equilibri internazionali e di quella specifica area «calda» del mondo. Testimone diretto dell’azione e della vita del «Leone del Panjshir», e col tempo suo amico personale, è stato l’inviato speciale del «Corriere della Sera» Ettore Mo, che ricorda così il loro primo incontro e quella figura così leggendaria da ricordare gli eroi letterari del passato: «Al tempo del nostro primo incontro, nell’81, l’ex studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie dei mujaheddin contro gli “sciuravi” — i russi — avrebbero via via ingigantito. Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri, quasi sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente d’altero o d’autoritario nella sua persona, sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare». 

Massud giovane rivoluzionario

Per capire cosa abbia significato Ahmad Shah Massud in Afghanistan e sullo scacchiere internazionale, bisogna fare un passo indietro nella storia del Paese e tornare al tempo della divisione del mondo nei due blocchi antagonisti occidentale e sovietico, con l’Urss che — anno dopo anno — espandeva la propria area d’influenza verso ovest e verso sud. Nella Kabul degli Anni ’70 Massud e un’intera generazione di studenti legati alle proprie tradizioni religiose e culturali sentono come una minaccia alla propria identità nazionale la pressione sovietica, e trovano nell’Islam e nella carismatica guida del professor Burhanuddin Rabbani il collante di una germinale resistenza a Mosca e un’alternativa a governi fantoccio come quello di Mohammed Daud Khan. Ma devono fare i conti anzitutto con la debolezza più antica del Paese, ovvero una pericolosa e fortissima frammentazione tra etnie differenti, che colpirà persino il fronte rivoluzionario dei Giovani Musulmani di cui fa parte Massud, spaccandolo in fazioni violentemente nemiche: da un lato i moderati fedeli a Rabbani, dall’altro gli estremisti guidati da Gulbuddin Hekmatyar, futuro dell’organizzazione fondamentalista islamica Hezbi Islami col sostegno del Pakistan. Il colpo di stato dell’aprile 1978 farà drammaticamente precipitare gli eventi, cacciando il regime repubblicano di Daud in favore di un governo filo-sovietico presieduto da Taraki, che farà entrare definitivamente l’Afghanistan nell’alveo di Mosca, mentre i ribelli organizzano la resistenza dalla base di Peshawar, drammaticamente divisi tra loro. Massud, dal canto suo, sceglierà di tornare al natio Panjshir, e da lì organizzerà una personale resistenza contro l’invasore russo. Dalla cronaca di «Corriere della Sera» del 1985, la descrizione dell’Afghanistan sotto controllo sovietico: «L’attività militare è solo un aspetto del coinvolgimento sovietico in Afghanistan, anche se il più vistoso. Ciò che avviene in sordina è la lenta ma continua penetrazione dei russi nei settori vitali dell’amministrazione e della burocrazia afghane: un processo che avrebbe già parzialmente cambiato il volto del Paese. I mass media subiscono il rigoroso controllo dei sovietici: l’università di Kabul, cittadella islamica, e le scuole in genere hanno dovuto accettare il nuovo indirizzo, che non sempre riesce a convivere con i dogmi della fede; la lingua russa sta per diventare obbligatoria e la pianificazione economica viene tracciata sotto la supervisione di esperti moscoviti»

L'Afganistan in capo a Mosca

Negli anni seguenti, dal 1979 al 1989, i mujaheddin di Massud, arroccati nelle montagne del nord del Paese, combatteranno le truppe sovietiche fino al loro definitivo ritiro nel 1989, con l’appoggio delle popolazioni locali e sotto lo sguardo incuriosito dei media internazionali, stupiti dai notevoli risultati militari di questo gruppo di guerriglieri, apparentemente improvvisato e senza mezzi, capace di resistere — e rispondere — a ben dieci offensive dei sovietici. Ettore Mo ci dà una descrizione della difficile — e impari — lotta tra mujaheddin e forze sovietiche: «La guerra russo-afghana è stata soprattutto, per chi abbia avuto il privilegio di seguirla assiduamente anno dopo anno, una gran fatica, uno sforzo fisico tremendo. [...] Ricordo un’escursione nel Panjshir, nell’estate dell’84, alla ricerca del leggendario comandante Massud, che alcune notizie davano per prigioniero dei russi o addirittura per morto: ventidue giorni di marcia per raggiungerlo e quasi altrettanti per rientrare in Pakistan. [...] Lassù nel Panjshir, il grande comandante stava benone. Altro che prigioniero o ferito a morte. Neanche un graffio sul suo bel volto asciutto, affilato. Aveva appena respinto la settima offensiva nella vallata, che i sovietici avevano troppo incautamente battezzato “Addio Massud”

L'illusione della pace a Kabul 

Cacciati i sovietici da Kabul e stipulati i cosiddetti Peshawar Accords tra i vari gruppi afghani protagoniste della resistenza, si impone il fronte guidato dal professor Rabbani, e Massud, per gli indubbi meriti militari, viene nominato ministro della Difesa. La sfida di dare un’unione politica al Paese si scontrerà da subito con le storiche divisioni interne tra le fazioni vincitrici dello scontro con i sovietici, e Massud dovrà vedersela in primis con le forze estremiste di Gulbuddin Hekmatyar, in una guerra a due, che assume nel tempo i tratti di un vero e proprio duello per la leadership, e che vede Massud forte di un enorme sostegno popolare e l’avversario sostenuto militarmente ed economicamente dal potente Pakistan. Annota Ettore Mo: «Nell’inverno del 1983 Massud aveva accusato Gulbuddin Hekmatyar, il super falco della resistenza di avergli tagliato i rifornimenti che venivano dal nord, favorendo i piani dell’Armata Rossa e affamando i suoi 10 mila mujaheddin. In realtà l’avversione che Hekmatyar ha sempre nutrito per il celebre comandante tagiko — secondo lui ingiustamente mitizzato dai mass media — aveva talvolta ostacolato il nostro cammino verso il Panjshir

Nutrito di odio

E ancora: «Nei dodici, tredici anni di guerra, Hekmatyar si è nutrito esclusivamente di odio, ha pasteggiato a odio dal mattino alla sera, tra le cinque preghiere quotidiane. Il suo piatto speciale era Massud Ahmad Shah, un tagiko, Gulbuddin era un pashtun di Kunduz, rampollo di una ricca famiglia di proprietari terrieri»

Un nuovo nemico: i talebani 

Nel clima di divisione interna e con le difficoltà oggettive di dieci durissimi anni di guerra alle spalle, l’Afghanistan fatica a diventare una compagine politica unitaria e democratica, e il vuoto governativo e di leadership diventa in pochi anni il terreno fertile per la nuova minaccia talebana, che gode dell’appoggio del vicino Pakistan, e secondo alcuni anche del finanziamento di attori internazionali contrari a un Afghanistan indipendente e sovrano. La resistenza ai talebani è serrata, ma non impedisce che nel settembre del 1996 questi guerriglieri dell’integralismo islamico prendano possesso di Kabul, instaurando la cosiddetta Repubblica islamica Afghana, fondata su una rigidissima interpretazione del Corano, che tocca soprattutto le libertà delle donne, private di ogni diritto politico e civile, interdette dall’istruzione e dalla vita sociale, e calpesta la tradizione culturale del Paese e i suoi simboli artistici come i famosi Buddha di Bamiyan, distrutti sotto gli occhi attoniti del mondo occidentale. Costretto alla fuga da Kabul come il Presidente Rabbani, Massud denuncerà ad alta voce la barbarie talebana, il sostegno del governo pachistano, e assisterà inerme alla vendetta dei nuovi padroni di Kabul, in primis contro il primo ministro Najibullah, prelevato con la forza dal palazzo dell’Onu, torturato, evirato e infine ucciso con un proiettile alla testa, per esser poi impalato sulla pubblica piazza come monito per la popolazione afghana. Un’escalation anti-democratica tale da far capire a Massud che è necessario il ritorno alla guerriglia utilizzata contro i sovietici, riorganizzando le sue forze dalla sua vecchia base nel Panjshir, come spiega a Ettore Mo nel 1996: «La mia è stata una ritirata strategica, come ce ne sono state tante nella storia. Ho messo in salvo i miei uomini e il mio arsenale. E ho evitato di esporre al massacro la popolazione locale. La vera sconfitta l’hanno subito loro — i talebani — perdendo l’appoggio popolare»

L'Alleanza del Nord

Stessi metodi per un avversario diverso, con l’appoggio — questa volta — delle forze occidentali riunite nella missione Enduring Freedom, non più indifferenti allo scacchiere afghano dopo i tragici fatti dell’11 settembre. Da allora fino al 9 di settembre del 2001, Massud o Leone del Panjshir, come verrà soprannominato, sarà alla testa dell’Alleanza del Nord in funzione anti-talebana, segnando successi militari che spiazzano le forze integraliste guidate da mullah Omar, come riporta ancora Ettore Mo: «In una sola giornata, con un duplice attacco, 1800 mujaheddin hanno spinto fuori dalla città — Teleqan — gli 8 mila studenti guerrieri di Omar inseguendoli poi lungo la strada berso Kunduz, a ovest. Più di cento talebani uccisi e 150 prigionieri»

La morte dell'eroe 

Pochi mesi prima dell’agguato che gli costerà la vita, Massud ammette che la situazione del Paese è drammatica e la guerra contro i talebani è a un punto di stallo, mentre le sue armate di mujaheddin faticano a portare avanti la resistenza senza il rinforzo delle potenze occidentali. In un’intervista a Ettore Mo dell’aprile 2001, al consueto piglio battagliero del Leone si sostituisce una profonda amarezza: «A tu per tu, mi lascia capire che la situazione nel territorio da lui controllato — che è sostanzialmente il Panjshir — è drammatica. Nella zona c’è un milione di profughi, le difficoltà sono state amplificate dalla carestia e da un clima perfido, manca il cibo, manca tutto. È stato di grande aiuto l’ospedale instaurato dal chirurgo milanese Gino Strada. [...] “Ciò che posso dire è che la nostra gente ha ormai capito chi sono veramente i Talebani, ed è solidale con noi. Credo che si siano resi conto, finalmente, che dietro i Talebani c’è un Paese straniero, il Pakistan”

L'attentato

È il 9 settembre del 2001, Massud è ormai una personalità di rilievo internazionale e non pochi media si interessano alla sua lotta di liberazione dalle valli del Panjshir; quel giorno il leggendario comandante riceve la visita di due sedicenti giornalisti tunisini, che dicono di volerlo intervistare per un’emittente televisiva del Marocco interessata alle gesta dell’Alleanza del Nord: nella telecamera che portano con sé è nascosta una bomba, che non lascerà scampo al Leone del Panjshir. Nell’esplosione morirà anche uno dei due attentatori, mentre l’altro sarà ucciso durante la fuga dalle guardie del corpo di Massud. Si scoprirà poi che i due tunisini sono in realtà terroristi reclutati a Bruxelles dal capo dell’organizzazione salafita Ansar Al Sharia, anche se altri osservatori li fanno risalire direttamente ad Al Qaeda. Due giorni dopo, quando la notizia della morte viene resa pubblica, passa in sordina perché il mondo è scosso dal più grande attentato terroristico della storia, proprio nel cuore degli Stati Uniti, e qualcuno azzarda subito che la tempistica dei due tragici eventi sia ben più che una coincidenza, quasi che la fine di Massud sia stato un sibillino avvertimento. Incompreso o inascoltato. Ettore Mo, più volte faccia a faccia con Massud, lo ricorderà con queste parole dalle pagine del Corriere: «Non so se quest’arida montagnola coperta di sabbia e cotta dal sole diventerà mai un luogo di culto per le popolazioni islamiche dell’Asia Centrale: certamente, la natura del territorio non favorisce peregrinazioni e raduni di massa. Ma per gli afghani di questa e di altre regioni, la tomba di Ahmad Shah Massoud resterà un simbolo imperituro della storia e della tragedia di un popolo o semplicemente il sarcofago-santuario dell’eroe che già all’inizio degli anni Ottanta chiamavano il Leone del Panjshir»

sabato 10 settembre 2016

Rinasce "Azione Studentesca"

RINASCE “AZIONE STUDENTESCA”: SIMBOLI ANTICHI PER NUOVE BATTAGLIE. GLI STUDENTI IDENTITARI TORNANO NELLE SCUOLE DI TUTTA ITALIA.

Sono trenta le province nelle quali, con il trillo della prima campanella dell’anno scolastico, il simbolo della croce bretone tornerà ad accompagnare le rivendicazioni di quel mondo studentesco che non vuole riconoscersi nella “buona scuola” di Renzi e nell’egemonia culturale post-sessantottina, che vuole opporre la vitalità delle idee alla fatalità di un declino annunciato che attanaglia l’Italia e l’Europa.

Azione studentesca torna a vivere per volontà dei militanti attivi sul territorio nazionale: nasce dal basso e godrà di una propria autonomia culturale e politica, sarà trasversale, avrà un programma chiaro e un’identità marcata. La scelta di utilizzare un nome conosciuto, che aveva caratterizzato le lotte studentesche in seno al progetto di Azione Giovani, è stata unanime: ritrovare una casa comune, rimarcare la continuità simbolica con il percorso di una Comunità umana che non ha mai reciso le proprie radici, restituire nuova linfa ad un simbolo che richiama la tradizione e la verticalità di una Civiltà in affanno.

Azione Studentesca vuole costruire un’altra scuola: non subordinata agli interessi dei privati, per un sapere svincolato dalla logica del mercato, per il primato della libertà di iniziativa sull’egemonia del Preside-sceriffo, per il trionfo della meritocrazia sul clientelismo, per una centralità dello studente nel “Comitato per la valutazione dei docenti”, nella presenza consultiva e decisionale dei Consigli d’Istituto e delle Consulte Provinciali, nell’istituzione di un organo di controllo dei Presidi che vigili e proponga. La nostra scuola è accessibile a tutti, efficiente e completa: non crolla, non ha barriere architettoniche e offre strutture moderne e sicure. E’ la scuola aperta allo sport e alla natura, è centro di aggregazione e di confronto anche dopo il trillo della campanella. E’ la scuola della socialità, dove non occorre un mutuo per compare i libri. E’ la scuola degli studenti e non dei potentati, delle caste e dei sindacati.

Azione Studentesca si batterà contro la scuola dei polli in batteria. Perché non siamo delle copie, degli automi o degli utenti. La scuola deve prepararci alla vita e non solo all’azienda: vogliamo diventare uomini e donne con una coscienza critica e un futuro dignitoso, vogliamo credere al verbo della volontà e non al germe della rassegnazione. L’insegnamento deve essere uno stimolo alla crescita e non un prodotto commerciale, deve educare e non omologare, deve offrire spunti e non nozioni. Deve formare persone e non polli in batteria.

Azione Studentesca vuole studiare, vivere e difendere l’identità. Abbiamo una storia e una terra, apparteniamo ad un popolo e ad una nazione. La nostra è la civiltà delle legioni di Roma e dei miti greci, dell’aratro e della spada, delle grandi cattedrali e dei dolci paesaggi, dell’arte e della navigazione, dei santi e degli eroi, della letteratura e del diritto. Siamo l’Europa delle patrie e delle identità, della famiglia naturale, dello spirito e delle tradizioni: il nostro destino non può esserci imposto dalla società multietnica dell’immigrazione senza regole, dai poteri globali e dall’ideologia gender.
La scuola deve trasmetterci la fierezza di essere italiani ed europei, deve renderci orgogliosi di appartenere a tutto questo, affinchè possiamo iniziare a difendere ciò che abbiamo imparato ad amare.

Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani


da ilgiornaleoff.ilgiornale.it

La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo.
Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. 
Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo.
A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti.

Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico.
Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.»

In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. 
A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa.
Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti.

Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante.
Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. 

Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.

martedì 1 marzo 2016

A Mikis


"Quel 28 febbraio 1975 la giornata era cominciata presto: già alle sei del mattino gli extraparlamentari di sinistra si erano radunato intorno a piazzale Clodio dove stava per riprendere il processo ai tre assassini di Potere Operaio: Lollo, Clavo e Grillo, che il 16 aprile del 1973 avevano bruciato vivi un ragazzo e un bambino, Stefano e Virgilio Mattei.

Oggi è incomprensibile una mobilitazione, non solo a livello attivistico ma anche e soprattutto di opinione, in difesa di chi aveva commesso un crimine così efferato e gratuito. Ma così andavano le cose negli anni Settanta. Anzi, il 13 febbraio, era stata data alle fiamme a Primavalle l’auto di un testimone al processo. Missino, ovviamente. 

Il 25 c’erano stati altri scontri, sedati dal maggiore dei carabinieri Antonio Varisco, che qualche anno dopo sarà ucciso dalle Brigate Rosse che non gliela avevano perdonata. I quotidiani Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori pubblicano le foto del “fascisti” davanti al tribunale e invitano i compagni ad andare il giorno dopo a piazzale Clodio. 

Quella mattina del 28, dunque, già c’erano state alcune scaramucce tra militanti missini e comunisti: questi ultimi avevano riconosciuto e sparato tre colpi di pistola contro un dirigente del Fronte della Gioventù, senza colpirlo ma mandando in frantumi i vetri di alcune autovetture parcheggiate. I gruppi dell’autonomia sono perfettamente equipaggiati per la guerriglia urbana: caschi, spranghe, tascapane con molotov e, scopriremo dopo, anche parecchie pistole. In uno scontro successivo un dirigente del Fronte riporta la frattura di un braccio. 

Dentro il tribunale, si accende una rissa tra un attivista della sezione missina del Prenestino e Alvaro Lojacono, che poi sparerà al giovane greco Mikis Mantakas del Fuan. In favore di Lojacono interviene il senatore comunista Terracini, del collegio di difesa di Lollo. Verso metà mattinata si accendono scontri in tutto il quartiere. Mentre infuriano i disordini, un centinaio di comunisti arriva alla spicciolata nel pressi della sezione Msi Prati di via Ottaviano, incredibilmente non presidiata dalle forze dell’ordine, e la assalta. Le forze dell’ordine erano tutte a presidiare la sede Rai di via Teulada, che infatti viene assaltata dall’autonomia come diversivo. 

Alle 12,45 i militanti dei collettivi individuano e fermano una “civetta” della polizia facendone scendere gli occupanti minacciandoli con sei o sette pistole. Verso le 13,15 il gruppo di fuoco comunista arriva a via Ottaviano, dove ci sono una ventina di giovani missini disarmati. I ragazzi cercano di ritirarsi nella sezione, dal gruppone parte una salva di bombe molotov che alzano un muro di fuoco e fumo davanti al portone dello stabile. Contemporaneamente vengono sparate le prime revolverate contro i missini. A questo punto i giovani della sezione Prati si dividono: una parte rientra in sede e una parte attraverso il cortile va all’altro ingresso su piazza Risorgimento. 

Ma la retroguardia del commando, tra cui Lojacono, li aspettavano e sparano. Testimonianze dicono che furono esplosi centinaia di colpi di pistola, sparati da almeno cinque persone diverse. I comunisti a questo punto arretrano proteggendosi la fuga con altre bombe molotov, e i ragazzi di destra si accorgono che uno di loro è ferito gravemente: è Mantakas, il cui soprabito tra l’altro era stato lambito dalle fiamme di una molotov. 

Tra i soccorritori di Mikis ci sono Paolo Signorelli, Fabio Rolli, che rimarrà ferito da una revolverata, e Stefano Sabatini, che si rinchiuderà dentro un box del palazzo con Mantakas agonizzante. Qualcuno dei difensori aveva una vecchia lanciarazzi, circostanza che induce il commando aggressore a pensare a una trappola e quindi ad arretrare. I giovani riescono a chiudere il portone ma intanto c’è un altro assalto: i collettivi entrano nel cortiletto, sentono un box chiudersi, e sparano attraverso la saracinesca: per fortuna Sabatini e Mantakas erano nel box accanto, quello più lontano dall’entrata. Sono trascorsi 15 minuti dall’inizio dell’assalto e la polizia non c’è ancora. 

I comunisti in fuga sparano contro un poliziotto in borghese, che però ne insegue due e li riesce ad arrestare: sono Fabrizio Panzieri e Lojacono, vicini ai collettivi di via del Volsci e di Fisica. Un’ambulanza dei Vigili del Fuoco porta Mantakas prima al Santo Sprito e poi al San Camillo, dove morirà nel pomeriggio, alle 18,30. Mantakas, Rolli e un passante, anch’egli ferito, sono stati colpiti da tre calibri diversi. All’inizio gli inquirenti dissero che tre persone avevano sparato, ma del terzo poi non si sentirà mai più parlare. 

Il 3 marzo, alla cerimonia funebre per Mantakas, a Santa Maria sopra Minerva, gli extraparlamentari di sinistra aggrediscono i missini che stavano andando verso la chiesa. Davanti ad alcune scuole di Roma compaiono le scritte “10-100-1000 Mantakas”. 

La stampa italiana cerca di imbastire una “pista nera” anche per il delitto Mantakas, ma il tentativo, come tutte le altre volte, naufraga miseramente. Paese Sera addirittura manda un volenteroso inviato in Grecia, ma ovviamente torna senza aver scoperto nulla di compromettente.
Mikis Mantakas era un giovane studente greco, nato ad Atene nel 1952 che sognava di fare il medico".

Il Comune di Roma legalizza i mercati rom di merce rubata




da ilgiornale.it

Non rischieranno più nulla i nomadi che nei pressi dei campi rom (e non solo) della Capitale vendono la merce il più delle volte frutto di furti e rapine.

A deciderlo è il Comune ora guidato dal commissario Tronca scelto dal premier Matteo Renzi. Il Dipartimento Politiche Sociali, infatti, ha emesso un bando da 5 milioni di euro per la gestione (da aprile 2016 a dicembre 2017) di sei aree romane dedicate ai nomadi. All'interno di queste "isole nomadi", rivela il Messaggero, ci saranno anche degli spazi dedicati alla compravendita di rame e altri oggetti.

Per la precisione il bando prevede di "rafforzare le attività professionali preesistenti e contraddistinte da carattere economico informale". Ovvero "le attività volte al recupero di cose usate per il riutilizzo, attraverso l'organizzazione di mercatini del riutilizzo, di raccolta di materiali ferrosi e di rifiuti ingombranti". Per questo verranno creati "spazi destinati a luogo di lavoro, per la raccolta e la lavorazione di metalli".

In pratica, invece di combattere i furti e di reprimere la vendita di materiali rubati, il Campidoglio preferisce legalizzare i mercatini. La merce sarà praticamente sempre merce di contrabbando, ma almeno il mercato sarà legale. E tanti saluti alle lotte con tasse e regole che invece ogni giorno i commercianti nostrani devono realizzare.

Non solo. Perché lo stesso bando, precisa il quotidiano romano, prevede anche di superare la logica dei campi e di inserire i rom nelle case popolari. Poi Un altro regalo. In ogni campo, chi vincerà il bando, dovrà trovare 25 soggetti idonei a vincere una "borsa lavoro": un impiego, trovato dal Comune, per 400 euro mensili. Con buona pace dei disoccupati italiani.

Unica nota positiva del provvedimento del Campidoglio sembra essere il nodo sicurezza. Gli accessi dei campi saranno controllati, anche da guardie private affiancate da vigili urbani. Inoltre ci sarà un data-base con tutti i nomi degli ospiti dei campi, che in caso di assenze prolungate dovranno essere segnalati. Giro di vite anche per gli ospiti degli assegnatari del campo, che avranno a disposizione solo un pass orario.

Cosi almeno potranno recarsi al mercatino della merce rubata.

venerdì 19 febbraio 2016

Allarme demografico in Italia


da repubblica.it 

ALLARME DEMOGRAFICO IN ITALIA: NASCITE RESTANO AL MINIMO DALL'UNITA' D'ITALIA. PICCO DEI DECESSI DAL DOPOGUERRA.

I dati dell'Istat. La popolazione residente in Italia si riduce di 139 mila unità. Al 1 gennaio 2016 i residenti erano 60 milioni 656 mila. Centomila italiani (+12,4%) hanno lasciato Paese

E' ancora allarme demografico in Italia con nascite in caduta libera e un amento dei decessi. 
Nel 2015 sono nati 488mila bambini, 8 per mille residenti, quindicimila in meno rispetto al 2014, toccando il minimo storico dalla nascita dello Stato Italiano. Lo dice l'Istat che ha diffuso gli indici demografici.Il numero dei figli medi per donna,è di 1,35 al 2015 che si conferma il quinto anno consecutivo di riduzione della fecondità. L'eta media delle donne al momento del parto è salita a 31,6 anni.

Mentre nascono sempre meno bambini aumenta il numero delle morti. Nel 2015 si è toccato il picco più alto di decessi dal secondo dopoguerra: i morti, secondo gli indicatori dell'Istat, sono stati 653 mila, 54 mila in più dell'anno precedente (+9,1%). L'aumento di mortalità risulta concentrato nelle classi di età molto anziane (75-95 anni).

Il tasso di mortalità, pari al 10,7 per mille, è il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in poi. Dal punto di vista demografico, il picco di mortalità del 2015 è in parte dovuto a effetti strutturali connessi all'invecchiamento e in parte al posticipo delle morti non avvenute nel biennio 2013-2014, più favorevole per la sopravvivenza. Diminuisce la speranza di vita alla nascita. Per gli uomini si attesta a 80,1 anni (da 80,3 del 2014), per le donne a 84,7 anni (da 85).

E' ancora allarme demografico quindi nel nostro paese. Nel 2015, secondo i dati del Report Istat, la popolazione residente in Italia si riduce di 139 mila unità (-2,3 per mille). 
Al 1 gennaio 2016 la popolazione totale è di 60 milioni 656 mila residenti. Gli stranieri residenti in Italia al 1 gennaio 2016 sono 5 milioni 54 mila e rappresentano l'8,3% della popolazione totale. Rispetto a un anno prima si riscontra un incremento di 39 mila unità. La popolazione di cittadinanza italiana scende a 55,6 milioni, conseguendo una perdita di 179 mila residenti. Nel 2015 centomila cittadini italiani si sono cancellati dall'anagrafe per trasferirsi all'estero. Un dato in aumento (+12,4%) rispetto al 2014. L'anno scorso, le iscrizioni anagrafiche dall'estero di stranieri sono state 245 mila; 28 mila, invece, i rientri in patria degli italiani. Le cancellazioni per l'estero hanno riguardato 45 mila stranieri (-4,8% sul 2014) e centomila italiani 

mercoledì 17 febbraio 2016

Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”


da ilgiornaleoff.ilgiornale.it
 
«Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». 

Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì.
E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.

Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere
Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni.

La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato.  

Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine.

Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%).

«Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. 
La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari».

Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre».

La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa.  

Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei tampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman».

Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. 
«Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani».

La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare.  

E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così».

Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe.  

In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti.

E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi.  

Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. 

Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri.  

Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».

mercoledì 10 febbraio 2016

10 Febbraio • Giornata del Ricordo •


Oggi ci troverete per le strade del ricordo. 
Li' dove giunsero molti di quegli splendidi italiani. 
Italiani due volte, per nascita e per aver voluto restare italiani 
di fronte alla tragedia dell'occupazione 
delle loro terre e delle loro case. 
Noi non li dimenticheremo mai e li onoreremo sempre!

martedì 9 febbraio 2016

A Paolo


"Per essere degli uomini nuovi non basta credere in determinati valori, è necessario viverli e temprarli nell’agire, quotidianamente: questa è in parte l’importanza di fare politica"
A Paolo, e a tutti quei ragazzi che scelsero di donarsi, sacrificarsi, di essere esempio per tutti i loro coetanei.

Il loro testimone non si è mai perso, ma è passato di mano in mano per tutte le generazioni di ragazzi che nel loro ricordo hanno deciso di impegnarsi per la propria gente.

A Paolo, per mille anni

Cara Rai...


Demagogica e inopportuna la presenza di Elton John sul palco dell'Ariston; è scandaloso che il Festival della musica italiana, ricco di storia e tradizione per il nostro Paese, venga strumentalizzato a pochi giorni dal voto in Senato sul ddl Cirinnà.

Quello di questa sera è uno spot a senso unico, profumatamente pagato dai contribuenti italiani, sulle unioni civili e la stepchild adoption, che aiuterà gli spettatori a comprendere cosa succederà se passerà il disegno di legge; con la pratica dell'utero in affitto infatti una coppia omosessuale potrà letteralmente acquistare il proprio bambino all'estero per poi vivere sotto lo stesso tetto in Italia, strappandolo così dalle mani della mamma. I bambini hanno il diritto ad avere una mamma e un papà e non sono un capriccio, e solo dall'unione tra un uomo e una donna può nascere la vita. 

Non sarà né un disegno di legge né tanto meno una puntata di Sanremo a sovvertire le cose!

lunedì 8 febbraio 2016

«Togliatti e il Pci complici delle foibe»



Riportiamo questa bell'intervista di due anni fa alla giornalista e storica dell’arte Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice di «Foibe ed esodo. L’Italia negata» (edizioni Pagine)

da iltempo.it

Un libro per «illuminare» l’oblio planato per decenni sulle foibe e sugli esuli istriani, giuliani e dalmati; per riempire le pagine vuote che gli storici «marchiati» con un simbolo a senso unico non hanno mai voluto scrivere; per risvegliare il ricordo di quanti patirono la furia comunista senza che la loro patria, l’Italia, tendesse la mano per accoglierli. Un libro intitolato «Foibe ed esodo. L’Italia negata» (edizioni Pagine), scritto dalla giornalista e storica dell’arte Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, che a 10 anni dall’istituzione del «Giorno del Ricordo» ha voluto sigillare la fine di un’epoca: l’epoca del silenzio e della verità negata, della storia fasulla e omertosa e delle menzogne divulgate per decenni. Il libro verrà presentato oggi alle 17 a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna 355.

C’è un’Italia negata, un’Italia di vittime ignorate e di giovani, donne e vecchi «oscurati» per comodità storica e politica.
«L’eccidio dei connazionali di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia è stato il più grande dopo l’Unità d’Italia. Ed è surreale che sia stato cancellato dalla coscienza nazionale. L’Italia aveva perso la guerra e quelle popolazioni hanno pagato il prezzo di una guerra che era di tutti gli italiani. Vivevano su un terra di confine e sono stati risucchiati dalla potenza del maresciallo Tito. Dobbiamo dire con chiarezza che la strage di questi italiani è avvenuta per mano di comunisti jugoslavi».

Nel dedicare il libro a suo nonno, Manlio Cace, ufficiale medico esule da Sebenico, lei parla di «congiura del silenzio». Da parte di chi?
«Per capirlo basta leggere i carteggi di Palmiro Togliatti con altri funzionari del Partito comunista dai quali si evince chiaramente la linea tenuta dal leader del Pci. Nel 1942 da Radio Mosca, Togliatti invitava gli italiani ad unirsi ai partigiani jugoslavi. Questa cos’è se non complicità nella pulizia etnica e nelle stragi delle foibe? Il Pci fu sempre contrario ad ascoltare le ragioni dei giuliano-dalmati, per motivi ideologici e per non incrinare l’amicizia con i popoli jugoslavi. Il loro silenzio successivo fu assoluto. Il Pci ha avuto il monopolio della cultura italiana, quindi dell’istruzione e della coscienza storica. Sono stati loro, complice l’atteggiamento da Ponzio Pilato della Dc, a decidere il racconto della nostra nazione, che cancellò una strage di proporzioni bibliche non ancora svelata. Della "congiura del silenzio", non va dimenticato, ha parlato anche il presidente Napolitano».

Nel libro le responsabilità vengono assegnate anche a una Dc «consociativamente» silenziosa, agli anglo-americani che «lasciarono fare» in nome della realpolitik, ma anche alla Cgil.
«È innegabile. Quando gli esuli tornarono in Italia vissero un dramma nel dramma. L’accoglienza per loro fu spesso spaventosa, soprattutto in certe zone più ideologizzate, come l’Emilia Romagna. Arrivati a Bologna, ad accoglierli c’erano militanti e simpatizzanti del Pci ma anche del «sindacato rosso», che li definivano "cosiddetti esuli" e li accusavano di fuggire non per evitare di vivere sotto una dittatura comunista ma perché collusi col fascismo».

A dieci anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha cancellato i fondi per i viaggi degli studenti su quei Luoghi della Memoria.
«Io mi vergogno del sindaco Marino. Tagliare completamente i fondi per i Viaggi della Memoria è una scelta di una gravità inaudita. Negli ultimi anni la presenza di studenti interessati e vogliosi di conoscere era in costante aumento. Interrompere questo viaggio di preparazione culturale è un’imperdonabile offesa».

Simone Cristicchi, per aver portato in scena il dramma delle foibe con «Magazzino 18», su cui nel libro ci si sofferma, è stato «assalito» anche da alcuni ragazzi che hanno interrotto il suo spettacolo giudicandolo «revisionista».
«In certi ambienti di radicale militanza politica si vive per dogmi. Non ci si interroga, si vive "contro" ogni cosa. E poi approfondire richiede impegno intellettuale, mentre è molto più semplice scagliarsi contro qualcosa. Non vogliono abbandonare la loro ideologia né riconoscere che questi morti sono morti italiani».

Achille Occhetto, che ha guidato il partito comunista nella sua fase conclusiva, ha «confessato» di non aver mai sentito parlare delle foibe prima dell’89.
«Non credo che Occhetto non sapesse. Probabilmente non aveva compreso col cuore, forse sapeva ma è passato velocemente alla pagina successiva senza comprendere il dramma che gli si stava parando davanti».

Lo stesso Occhetto ha ammesso di essersi commosso assistendo a «Magazzino 18» allo stesso modo in cui si commosse leggendo il diario di Anna Frank.
«L’arte raggiunge il cuore. Possiamo fare mille conferenze e dibattiti, ma i freddi numeri della storia e delle cifre non potranno mai avere lo stesso effetto. L’arte fa commuovere, come fa commuovere Magazzino 18. La storia degli esuli arriverà al cuore dagli italiani quando diventerà spettacolo, romanzo, opera artistica».

Cosa deve cambiare affinché non accada più che migliaia di vittime innocenti vengano dimenticate dalla storia?
«Non bisogna mai stancarsi di raccontare, scompaginare questi lunghi anni di silenzio. Oggi siamo al punto di partenza, non di arrivo. Solo battendosi e lottando, la verità sulle foibe e sugli esuli verrà a galla. Il mio libro è parte di questa battaglia».

domenica 7 febbraio 2016

Tutto questo è Italia


TUTTO QUESTO È ITALIA

Ricordo un popolo che amava la sua terra e che la scelse, nonostante tutto. Nonostante le persecuzioni ad opera dei partigiani titini da una parte e il rifiuto da parte dell’Italia di tutelarlo ed accoglierlo. La scelse con coraggio e amore perché era così follemente giusto e naturale. Scelse di non rinnegare la propria terra riconquistata e difesa, perché l’Istria, la Dalmazia e Fiume erano, sono e continueranno ad essere italiane per cultura, storia e tradizioni.

Quell’Italia che portiamo tutti noi nel cuore e che leggendone la storia ci fa emozionare. Quell’Italia che deve la sua esistenza ai nostri avi, i quali lottarono per difenderne ogni singolo centimetro, anche il più sperduto.

Ecco perché siamo italiani; perché noi apparteniamo all’Italia, tanto quanto l’Italia appartiene a noi, perché siamo uniti imprescindibilmente da un amore smisurato per la sua storia, le sue montagne, i suoi fiumi, le sue cattedrali.

Con il coraggio di Nazario Sauro e seguendo i passi di Gabriele D’Annunzio che, con quella “banda di matti” degli Arditi, lottò per difendere la città di Fiume e il Golfo del Quarnaro e riconsegnarle all’Italia, la continueremo a proteggere con lo stesso spirito dei ragazzi del ’53, scesi nelle vie di Trieste per ribadire che quella era casa loro e che niente e nessuno avrebbe potuto togliergliela, o cambiarne l’identità e i confini.

Noi siamo sempre qui, dalla parte di tutti quei giovani italiani che amano quel tricolore, pronti ad alzare barricate contro chi vorrebbe infangarlo e insultarlo, minandone la sacralità. Non ci fermeranno.

Non ci fermeremo.
Mai!

sabato 6 febbraio 2016

Io non scordo


Sono iniziati stamani, al liceo Cavour, 
i volantinaggi per la giornata del Ricordo.
 
Ricordo migliaia di uomini, donne, anziani e bambini 
lasciati morire nel buio di una foiba.
 
Ricordo studenti, operai e maestri torturati ed uccisi 
dalle milizie jugoslave nel Nord-est d'Italia.
 
Ricordo quegli assassini ancora impuniti, assolti dalle loro accuse 
per aver operato in ambito extra-nazionale.
 
Ricordo i 350 mila esuli di Fiume, Istria e Dalmazia 
costretti ad abbandonare la propria Terra.
 
Ricordo migliaia di persone scomparse nel nulla 
che le nostre scuole fanno finta di dimenticare.
 
Ricordo il silenzio degli editori e di professori faziosi 
affinché le nuove generazioni non sapessero, affinché non imparassero.
 
Il 10 Febbraio di ogni anno, nella Giornata del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata è proprio agli studenti che è dato il compito di non dimenticare mai più e di riattaccare le pagine strappate dal grande libro della storia Nazionale!
 
Oggi ci troverete dalle 16 a Piazza Cola di Rienzo!
 
Noi non scordiamo!

Centro giovani Trastevere sempre chiuso!



ISCRIZIONI APERTE, CENTRO GIOVANI SEMPRE CHIUSO".

Un mese fa chiedevamo alla Presidente del I Municipio Alfonsi, con un occupazione simbolica dell'aula consiliare, la riapertura delle iscrizioni del centro giovani di Trastevere e l'indizione di nuove elezioni che fossero aperte a tutti. Di fronte alle palesi scorrettezze che la sinistra aveva messo in atto, il consiglio municipale accolse le nostre richieste. 
Ma siamo alle solite;
le iscrizioni al Centro Giovani per i ragazzi di Roma sono state riaperte ma lo stabile è sempre chiuso impedendo di fatto a chi non è "amico" della Presidente Alfonsi di iscriversi.
Un luogo che dovrebbe essere il cuore pulsante delle attivita' e dell' aggregazione giovanile, resta chiuso al pubblico e il perché resta sconosciuto.
Il Presidente del municipio e la sua giunta, dimostrano ancora una volta che le uniche politiche che il centrosinistra riconosce sono le occupazioni dei centri sociali e la gestione degli spazi pubblici con logiche clientelari.
Se pensavano che ci saremmo arresi, che non avremmo più posto attenzione alla questione si sbagliavano.
Non ci fermeremo finchè il centro giovani non sara finalmente uno spazio aperto al talento, alla creatività di tutti i giovani della citta e non solo dei giovani di Pd e Sel.

giovedì 4 febbraio 2016

Nessuno scherzi.



NESSUNO SCHERZI.

Estranei ad affittopoli.
Sede è dedicata agli esuli ed è patrimonio della destra italiana.
Nessuno scherzi sugli immobili occupati o concessi a canoni irrisori a partiti o associazioni.
Noi siamo estranei.

I partiti della prima Repubblica Pci - Dc - Psi - Ori - Psdi ed il loro attuale erede, il PD, hanno beneficiato per settant'anni di oltre diecimila locali pubblici ubicati in tutte le città italiane di proprietà di comuni, province, regioni, enti pubblici, per un valore complessivo pari a miliardi di euro.
La cosa clamorosa è che il circuito mediatico, maldestramente orientato dal PD, per nascondere la vergogna di affittopoli, mette all'indice un ex orinatoio collocato tra i ruderi del parco di Colle Oppio che nel 1946 fu ricovero di famiglie istriane, giuliano, dalmate che lì si trovavano per mantenere legami con le proprie radici culturali.

Infatti quel circolo, poi divenuto sede dell' MSI, conserva ancora oggi il titolo di "Istria e Dalmazia".
Un luogo d'incontro, ricreazione, impegno sociale sempre attivo, visitato da famiglie, bambini, anziani e da decine di personalità tra cui ricordiamo l'attuale vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, l'ex presidente della provincia di Roma Enrico Gasbarra e l'indimenticato monsignor Luigi Di Liegro.

Noi abbiamo chiesto al Comune in passato che fossero valutate le condizioni d'uso di Colle Oppio, migliorate radicalmente grazie alla manutenzione effettuata nei primi decenni, per rinnovare il contratto, senza avere alcuna risposta.

E restiamo tutt'ora pronti a discutere purchè si considerino i locali per quello che sono stati: un rudere scoperchiato ed inagibile che, senza l'uso di questi decenni sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, un dormitorio per sbandati.
Nessuna relazione di alcun tipo con lo scandalo pluridecennale di affittopoli.

Nessuno scherzi.

lunedì 1 febbraio 2016

Colle Oppio, Tozzi - Mollicone (FDI): "Bene riqualificazione"


Omniroma
COLLE OPPIO, TOZZI-MOLLICONE (FDI): "BENE RIQUALIFICAZIONE"

Roma, 29 GEN

"Come Fdi-An festeggiamo anche noi l'avvenuta riqualificazione del parco del Colle Oppio con i fondi del Giubileo. Si è dato seguito alla pluriennale battaglia della destra di far riqualificare questo gioiello al centro di Roma, teatro di tanti momenti spensierati per i cittadini romani. 
Anche negli incontri con le autorità prefettizie abbiamo sempre sottolineato la necessità di riqualificare e mettere in sicurezza il parco dando seguito alle tante manifestazioni dei comitati cittadini. Sarà ora importante avviare un piano regolatore di manutenzione del parco con le associazioni e le istituzioni del territorio, insieme alla programmazione di attività culturali". 
È quanto dichiarano in una nota congiunta gli esponenti di Fdi-An, Stefano Tozzi capogruppo nel Municipio I e Federico Mollicone responsabile comunicazione. 

red 291523 GEN 16 NNNN

sabato 30 gennaio 2016

Famiglia vs Cirinnà


davanti al Senato durante l'inizio 
della discussione del Ddl Cirinna'!
In prima linea ancora una volta 
in difesa della Famiglia 
contro l'intenzione di chi, 
in nome di uno squallido 
ed ideologico progressismo, 
vuole mettere in vendita la Vita un bambino!
Ringraziamo Giorgia Meloni 
per aver dato voce alla manifestazione di oggi!
Ci vediamo sabato 30 al Circo Massimo 
per difendere i diritti dei bambini ad avere una mamma e un papà!

Chi si dovrebbe nascondere...


Martedì sera, in occasione dell’incontro istituzionale tra il premier Renzi e il presidente dell’Iran Rouhani in Campidoglio, alcune statue di nudo esposte nei Musei Capitolini sono state coperte con dei pannelli per non offendere la sensibilità di Teheran. Una scena già vista a Firenze, quando una statua di nudo esposta a Palazzo Vecchio è stata coperta per non infastidire lo sceicco principe ereditario degli Emirati Arabi. Il livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra ha superato ogni limite di decenza. A questo punto ci chiediamo che cosa avrà in mente Renzi per l’arrivo in Italia dell’emiro del Qatar previsto in settimana: coprire la Basilica di San Pietro con un enorme scatolone?

venerdì 22 gennaio 2016

Giorgia Meloni, la sfida a Renzi: "Lo Stato risarcisca le vittime dei clandestini"



da liberoquotidiano.it

"Noi chiediamo che lo Stato risarcisca le vittime dei reati commessi da persone che non dovevano essere lì in quel momento, dunque beneficiari di svuota carceri e clandestini. Se liberi per incapacità dello Stato di gestire determinate emergenze, è
giusto che paghi lo Stato e risarcisca le vittime". È la proposta di Giorgia Meloni, uno dei punti centrali del "pacchetto sicurezza" messo a punto da Fratelli d'Italia-An. "Sfidiamo il governo a valutare questo pacchetto - dice la presidente di Fdi-An -, ci accusano sempre di soffiare sul fuoco della demagogia e della propaganda, queste sono proposte concrete". Per la Meloni, "la
sicurezza è una precondizione di libertà, lo strumento principe che lo Stato ha per difendere i più deboli. Con questo pacchetto, cerchiamo di intervenire a 360 gradi", partendo dalla "certezza della pena, un principio che vogliamo ripristinare. In Italia ci sono stati 5 decreti svuota-carceri in 4 anni, in galera non ci si finisce più. Noi vogliamo combattere il lassismo buonista che ha finito per farci trovare davanti a uno Stato più vicino ai carnefici che alle vittime". "Nell'ultimo anno - rimarca - tra i denunciati a piede libero gli stranieri sono stati il 54,2%, tra gli arrestati il 62%, tra i detenuti il 42,3%".

Il registro delle moschee - Il pacchetto, come ricordato in conferenza stampa dall'ex ministro Ignazio La Russa, prevede anche "l'istituzione del registro pubblico delle moschee" e disposizioni in materia di imam: tra queste l'obbligo dell'uso della lingua italiana durante i sermoni. "L'incremento della spinta terroristica legata al fondamentalismo islamico e la crisi economica - rimarca il capogruppo alla Camera Fabio Rampelli - costituiscono un combinato disposto che dovrebbe convincere anche i più riottosi a intervenire sul fronte sicurezza".

martedì 19 gennaio 2016

A Jan Palach


1000 LUCI PER L'EUROPA, IN RICORDO DI JAN PALACH 

Abbiamo scelto di pubblicare oggi, a 47 anni esatti dalla sua morte, l'iniziativa fatta sabato scorso 16 gennaio, giorno in cui ricorreva l'anniversario di quel gesto estremo nella piazza centrale di Praga.
Mille luci lanciate in cielo dal cuore di Roma, in ricordo di quello che fu il primo atto della sfida di tanti giovani studenti contro chi opprimeva il loro popolo, la loro terra.
Se a distanza di così tanti anni quel loro sacrificio continua a viaggiare nella storia è perché l'Europa la libertà, quella vera, è ancora lontana dal conquistarla.