lunedì 29 maggio 2017

La questione migranti che portò Roma al collasso

 
La cattiva gestione dell'ondata migratoria di Goti, nel quarto secolo, generò le ostilità alla base della Battaglia di Adrianopoli, l'inizio della fine per l'Impero Romano d'Occidente. Una vicenda da cui avremmo da imparare.

da focus.it

Il 9 agosto del 378 d.C., ad Adrianopoli, in Tracia - nella moderna provincia turca di Edirne - si consumava una delle peggiori sconfitte militari mai subite dai romani: il massacro di 30 mila soldati dell'impero, guidati da Flavio Giulio Valente, perpetrato dai Goti, al seguito del re guerriero Fritigerno. Secondo gli storici, quella disfatta segnò l'inizio della catena di eventi che avrebbe portato alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, nel 476. 

Ripercorrere oggi gli eventi che portarono alla battaglia di Adrianopoli è interessante: secondo una lettura dei fatti di allora pubblicata su Quartz, all'origine della strage ci sarebbe stata la cattiva gestione, da parte dei romani, di un'imponente ondata migratoria di Goti avvenuta due anni prima. Gli stessi Goti che si sarebbero trasformati nei carnefici delle legioni dell'Urbe.

In fuga dalla guerra. Nel 376 d.C., racconta lo storico Ammiano Marcellino, i Goti furono costretti ad abbandonare i propri territori (nell'attuale Europa orientale) spinti dagli Unni, "la razza più feroce di ogni parallelo", che premeva da nord sui loro confini. Il loro arrivo, "come un turbine, dalle montagne, come se fossero saliti dai più segreti recessi della Terra per distruggere tutto quello che capitava a tiro", provocò un bagno di sangue tra i Goti che decisero - come fanno oggi i siriani - di fuggire.

Richiesta di asilo. I Goti, guidati da Fritigerno, chiesero allora ai Romani di potersi stabilire in Tracia, al di là del Danubio: una terra fertile con un fiume che li avrebbe protetti da un'invasione unna. Quell'area era governata dall'imperatore Valente, al quale i Goti promisero sottomissione a patto che avessero potuto vivere in pace, coltivando e servendo i romani come truppe ausiliarie. In segno di gratitudine, Fritigerno si convertì anche al cristianesimo.

Viaggio della speranza. Inizialmente le cose sembrarono funzionare: i Romani, nei confronti delle popolazioni sottomesse, esercitavano abitualmente una strategia inclusiva. Preferivano farne cittadini romani e assimilarne la cultura, per evitare future ribellioni. Decine di migliaia di Goti (forse oltre 200 mila) guadarono il Danubio di giorno e di notte, imbarcandosi su navi e scialuppe di fortuna; molti di essi, per il gran numero, annegarono, e furono trascinati via dalle correnti. 

Corruzione e soprusi. In base agli accordi, i Goti arrivati in Tracia sarebbero stati coscritti nell'esercito romano e avrebbero ottenuto la cittadinanza. Ma gli ufficiali militari che dovevano garantire loro supporto e provviste - un'antica rete di supporto ai migranti - si rivelarono corrotti e approfittarono dei mezzi stanziati per i nuovi arrivati, vendendo le provvigioni al mercato nero. Ridotti alla fame, i Goti furono costretti a vendere i figli come schiavi e a comprare carne di cane dai romani.

L'epilogo e la memoria (corta). Le ostilità tra le due popolazioni crebbero. Il risentimento covato dai Goti li portò dal desiderare di divenire romani al desiderio di annientare i romani. Fu con questa rabbia covata a lungo che sterminarono gli eserciti di Valente. E la battaglia fu l’inizio della valanga che travolse l’Occidente. Tanto che molti storici assumono il 9 agosto 378 come data spartiacque tra l’antichità e il Medioevo.

Nella gestione dei flussi migratori, oggi, ci si prospettano due strade: quella dell'inclusione, e quella del rifiuto e del respingimento. Se è vero che la storia è magistra vitae, abbiamo già visto una volta dove porta la seconda via.

martedì 23 maggio 2017

A 25 anni dalla scomparsa di Giovanni Falcone


29 anni fa moriva Giorgio Almirante: innovatore, maestro di stile e democrazia



da secoloditalia.it

Ventinove anni fa l’Italia e il mondo della Destra storica e di opposizione di governo davano l’addio a Giorgio Almirante, (scomparso a sole 24ore di distanza da Pino Romualdi) un leader d’alto rango che, per ricordarlo attraverso le parole di Marcello Veneziani, saggista e scrittore che, tra i tanti esponenti politici e culturali che ne hanno omaggiato la memoria e ripercorso le tappe politico-sociali nella Mostra voluta e organizzata nei mesi scorsi dalla Fondazione An dedicata alla storia del Movimento Sociale, di lui ha detto: «Parlava, e nelle sue parole avvertivi una storia, una sensibilità, una cultura. Era il Noi che rappresentava una continuità, non un Io che parlava di sé. Il suo era un dialogo con la coscienza e per questo colpiva chiunque lo ascoltasse. Ha portato l’italianità nella politica, restituito dignità al Tricolore, alla bandiera, recuperato il senso della Patria».

Giorgio Almirante, la grande lezione dell’uomo e del politico

Un uomo che ha incarnato la tenacia e l’onestà intellettuale applicate a una politica di “vecchio stampo”, militante e ideologica, ancora lontana dagli scandali di corruzione e tangenti, compromessi e tornaconto individuali. Un politico capace di coniugare, nell’impegno quotidiano, tenacia e fermezza e indiscutibile capacità di tenere unita una comunità ancora emarginata, discriminata, vittima del terrorismo imperante dei feroci anni Settanta, quando parlare da un pulpito non violento in un momento in cui molti si incamminavano nel tunnel buio della lotta armata contro il sistema, non era facile. Anzi, era quasi impossibile. Eppure Almirante, protagonista assoluto della storia italiana e della Destra nazionale, è riuscito a dispetto di tutto e di tutto a rimanere nell’alveo di una civile competizione democratica. Non per niente, tra i tanti che a lui hanno riconosciuto doti politologiche e lungimiranza strategica, in particolare Montanelli disse che «il leader del Msi era il solo uomo politico cui potevi stringere la mano senza timore di sporcartela».

Giorgio Almirante, ricordi e lezioni di vita e di politica

E non solo: «Era un  uomo schietto, intento a  cambiare radicalmente l’impostazione culturale delle istituzioni che amava profondamente» ha ribadito una volta di più la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che in un suo personale ricordo dedicato ad Almirante ha anche detto: «Se oggi si può parlare di pacificazione, si può chiudere una pagina della storia nazionale e aprirne una nuova, lo si deve anche al suo contributo politico e morale. Gli piaceva dire “noi possiamo guardarti negli occhi” e l’Italia, soprattutto in questo momento ha un disperato bisogno di persone che possano dire al popolo: “Possiamo guardarti negli occhi». E se  Altero Matteoli esponente di Forza Italia ha a più riprese sostenuto come, «di fronte alla politica attuale ricordare la figura di Almirante mette i brividi. Lui, Berlinguer… sembra di parlare di secoli fa. Erano gli anni del grande scontro di idee, dei confronti sanguigni ma corretti, oggi è tutta una marmellata indistinta», Ignazio La Russa (FdI) lo ha spesso ricordato in questo episodio che molto racconta dell’uomo e del politico: «Ricordo perfettamente un giorno di autunno, pioveva a dirotto, in cui Almirante piombò in sezione: ci avvertirono poco prima, davanti a due-trecento ragazzi iniziò a parlare, parlare, parlare non curante della pioggia battente.  Sapeva bene che l’esempio vale molto più delle parole, così iniziò il invitandoci a “inventare”  un nuovo linguaggio, a svecchiare le vecchie liturgie,  poi si interruppe e disse, “che fate con questi ombrelli, toglieteli”.  Parlò ininterrottamente per cinquanta minuti sotto l’acqua»…

Un esempio ancora oggi insuperato

Anche per questo, allora, in anni in cui la politica sembra aver smarrito progettualità ambiziosa e profondità di pensiero, riveduta e corretta dalla banalità imperante dei talk show divenuti malgrado tutti – addetti ai lavori compresi – la terza Camera dello Stato in cui chiacchiericcio e insulti hanno la meglio; in un momento storico in cui il pensiero di un’Europa che non c’è e di una comunità continentale unita non solo geo-monetariamente ma politicamente è una chimera che svilisce all’ordine del giorno valore e senso della Nazione. In cui gli italiani perdono ad ogni settimana che passa un pezzo di orgoglio e di dignità, autorevolezza e incisività, la lezione di Almirante impartita con passione e sacrificio, si fa più vivida, vibrante e necessaria che mai. I suoi discorsi. Il suo stile. La sua pacatezza e passionalità dialettica, la sua educazione, eleganza e gentilezza, la sua impareggiabile ironia e uno stile da uomo di Stato d’altri tempi (politici) ancora ineguagliabile, svettano in un presente immiserito da una politica politicante intrisa di demagogia e autoreferenzialità.

Un innovatore puro, maestro di democrazia e pacificazione

Un innovatore puro che, come ha detto a più riprese e in diverse occasioni commemorative Maurizio Gasparri proponendo del leader della Destra una diversa lettura, in uno dei suoi appassionati ricordi di Giorgio Almirante rivolto «a quanti lo hanno troppo sbrigativamente giudicato un nostalgico» ha ricordato come, quanto e perché il numero del Msi «fu maestro di democrazia e di pacificazione» che «con il presidenzialismo voleva un coinvolgimento più ampio dei cittadini nelle scelte fondamentali della vita dello Stato e della democrazia governante». E ancora: «Almirante invitò costantemente alla pacificazione tra gli italiani. E lo fece durante gli anni di piombo, in un tempo ancora non sufficientemente lontano dagli odi e dai rancori della guerra civile. Lo voglio ricordare oggi che di pacificazione si torna a parlare in altri contesti, di grande polemica e di scontro politico, ma certamente diversi dai tempi cruenti degli anni di piombo durante i quali parlare della pacificazione era un atto di grande coraggio». 

«Non rinnegare né restaurare» nell’indicazione del futuro

E allora, in conclusione, ci piace rievocarne personalità politica e particolarità personali anche con le parole di Franco Mugnai, presidente della Fondazione An, che ormai qualche tempo fa, in occasione di un convegno tenutosi nella sala della Regina, a Montecitorio, per la chiusura del centenario della nascita di Giorgio Almirante promosso dalla Fondazione che porta il suo nome, richiamando una frase che lo rese famoso, ha detto: «Non rinnegare né restaurare. Era il suo pensiero, il filo conduttore della sua azione, la filosofia politica di una vita intera, il monito rivolto ai giovani. Ai quali Almirante amava indicare il futuro. Un Futuro da costruire con passione e sacrificio, senza mai recidere le proprie radici. Una lezione per tutti. Un esempio di democrazia. Uno stile di vita».

sabato 20 maggio 2017

Le immagini, i filmati e i racconti: omaggio dei compagni d'avventura


da il giornale.it

Trieste. «La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (...) Fa freddo, l'erba è umida e c'è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l'effetto di una fiammata in gola» scrive Almerigo Grilz il 18 maggio 1987 sul suo diario di guerra dell'ultimo reportage in Mozambico


«In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (...) Il vocione del generale Elias (...) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!. In no time siamo in marcia». Per Almerigo sarà l'ultimo giorno di appunti. All'alba del 19 maggio, il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filma la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell'attacco alla città di Caia. Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Trent'anni dopo Gian Micalessin e chi vi scrive, i suoi compagni di avventura nei reportage, gli dedicano a Trieste, la città dove è nato, la mostra fotografica Gli occhi delle guerra - da Almerigo Grilz alla battaglia di Mosul. Un'esposizione unica in Italia con 90 pannelli su 35 anni di reportage dall'invasione israeliana del Libano nel 1982 fino al caos della Libia, la terribile guerra in Siria e la sanguinosa battaglia contro il Califfo in Irak. La mostra e il catalogo contengono anche le foto scattate da Almerigo nel corso della sua breve, ma intensa attività in Afghanistan, Etiopia, Filippine Mozambico, Iran, Cambogia e Birmania. L'esposizione, che si inaugura oggi alle 18.30 con l'assessore alla Cultura di Trieste, Giorgio Rossi, al civico museo di guerra per la pace Diego de Henriquez rimarrà aperta fino al 3 luglio.

Della mostra fa parte una selezione delle pagine più significative delle agende (Guarda la gallery con le immagini) che Almerigo Grilz utilizzava per annotare con precisione ogni momento dei suoi reportage corredando il tutto con disegni e mappe dettagliate. La futura vocazione e la passione del giornalista emerge pure dalle pagine dei Diari del giovane Grilz con un Almerigo adolescente che disegnava scene di battaglie storiche e descriveva gli avvenimenti della sua Trieste. Il pubblico potrà sfogliare anche le bozze del fumetto Almerigo Grilz - avventura di una vita al fronte (Ferrogallico editore), dalla passione politica al giornalismo, che verrà pubblicato in settembre.

Un percorso nella memoria di un giornalista scomodo e volutamente poco ricordato per il suo attivismo a destra, nel Fronte della gioventù, negli anni Settanta, che non a caso Toni Capuozzo ha definito l'«inviato ignoto». Oggi alle 19.30 Almerigo verrà ricordato a Trieste anche in via Paduina davanti a quella che è stata la sede nel Fronte, l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano.

Al museo de Henriquez accanto alle foto scorrono i filmati realizzati da Almerigo con la cinepresa Super 8. E l'invito in studio nel 1986 di Ambrogio Fogar nel programma Jonathan dimensione avventura dove Grilz con Egisto Corradi, storica colonna del Giornale e Maurizio Chierici del Corriere della Sera parlano del mestiere di inviato di guerra e dei suoi pericoli.
I video comprendono anche i reportage di oggi sui Paesi senza pace come Afghanistan, Siria, Libia, Irak realizzati grazie al progetto del giornale.it, Gli Occhi della guerra e al sostegno dei nostri lettori. E non manca il documentario L'Albero di Almerigo (guarda il video) che racconta la ricerca e il ritrovamento in Mozambico dell'antico albero ai piedi del quale riposa Almerigo Grilz.
La mostra nel trentennale della sua scomparsa vuole essere anche un tributo ai reportage in prima linea, in un periodo di media in crisi e un omaggio non solo a Grilz, ma a tutti i giornalisti che hanno perso la vita sul fronte dell'informazione per raccontare le tragedie dei conflitti.

Nel 1986 in Mozambico, un anno prima di morire, Almerigo annotava sul suo diario: «Mi sporgo fuori per filmarli: non è facile, occorre stare appiattiti a terra perché le pallottole fischiano dappertutto. Alzare troppo la testa può essere fatale».

mercoledì 17 maggio 2017

Drieu testimone europeo della lotta contro i colossi Usa e Urss


da barbadillo.it

Sandro Marano è un intellettuale che divide sin da giovanissimo la propria vita fra i codici, la letteratura per nutrire l’anima, l’ecologia vissuta come rispetto sacrale della natura.
La sua visione del mondo, la sua educazione spirituale e di impegno nella vita quotidiana gli è derivata da autori che ha studiato a fondo e il suo esercizio intellettuale continuo, quasi una disciplina, lo ha spinto negli anni a studiare e approfondire, fra gli altri, lo scrittore francese Pierre Drieu La Rochelle, traendone elementi di particolare suggestione per una radicale critica al mondo moderno.

Non solo: lo studio di Drieu lo ha spinto a rintracciare, fra le righe delle sue opere, nuove piste interpretative, come quelle che riportano all’ecologia e alla difesa della natura in Europa, oltre alla chiara e nota critica del mondo moderno e della società delle macchine. Frutto di questo impegno, un libretto prezioso, vera guida alle opere di Drieu e itineraio letterario e politico: Pierre Drieu La Rochelle pellegrino del sogno (Pellegrini ed., pagg. 102, euro12,00). Il titolo è tratto da una frase di Jaime, protagonista del romanzo L’Uomo a cavallo di Drieu. Marano analizza l’impegno culturale dello scrittore francese espresso con romanzi, novelle, saggi e conferenze, oltre che con la direzione della prestigiosa rivista La Nouvelle revue française. Drieu tendeva a spostare l’attenzione dei francesi, degli europei, sulla necessità di confederare l’Europa, di rintracciare un filo comune che desse al continente unità politica e spirituale e che, dal punto di vista geopolitico, la contrapponesse ai colossi Usa e Urss. Una visione che interpretava destra e sinistra come opzioni ormai sorpassate, ottocentesche, e che richiamava l’attenzione sull’antica Europa i cui popoli, di comune origine, avrebbero dovuto rinsaldarsi per rigettare il nazionalismo ormai superato e portatore – specie nella prima guerra mondiale – di carneficine e stragi di grande portata.

Per lo scrittore francese la politica era lo snodo essenziale per la rinascita degli europei, come anche una visione ecologista. Non mancano le analisi di Marano alla concezione di Drieu dell’Europa carnale, dei popoli. Proprio questo tema Drieu La Rochelle ha affrontato in un libro che tratta della genealogia della decadenza, ristampato recentemente (Appunti per comprendere il secolo, All’Insegna del Veltro ed., pagg. 157, euro 18,00; con studio introduttivo di Attilio Cucchi, fotografie di Cristina Gregolin).

L’analisi di Drieu parte dal Medioevo, considerato epoca d’oro per l’uomo, dove convivevano in maniera equilibrata anima e corpo. La grandezza della civiltà era percepita nelle “cattedrali di luce”, negli Stati e nelle iniziative dei popoli europei, nella cultura dei chiostri e nella fede in un Dio cristiano e pagano al tempo stesso. Nel cuore di Drieu viveva il desiderio della rinascita europea: “Non sono un uomo del passato, sono un uomo della vita” affermava e, nell’analizzare la storia d’Europa e la sua lenta decadenza, si riferiva all’Europa carolingia, che a sua volta si richiamava all’Impero romano e teneva in sé il seme franco, quello germanico oltre che quello latino. La perdita dell’equilibrio cominciò con il Rinascimento e proseguì con la rottura del rapporto fra città e campagna per proseguire con lo sfilacciamento del legame sociale a causa del progresso che si basa sul denaro e su una visione economicista dei rapporti e la predominanza della macchina sull’uomo. Drieu, uomo del futuro, si richiamava alla visione ciclica della storia, ai ritmi della natura, all’uomo, alla sua vigoria e al suo sangue che sposano la vita. Nella speranza di un ritorno alla grandezza europea, nell’attesa che il mito dell’Europa sbocciasse ancora, in un nuovo ordine, Drieu La Rochelle aderì al fascismo, terza via contro americanismo e bolscevismo, terza via per l’Europa. Il crollo di quella che era una speranza, lo spinse a suicidarsi. Era il 15 marzo del 1945.

martedì 16 maggio 2017

La storia. Trent’anni di Fare Verde e le intuizioni di Paolo Colli



da barbadillo.it 
(Sandro Marano)
 
Nel 1990, dopo quattro anni di esperienza in Legambiente e nelle Liste verdi, cercavo un’associazione ambientalista che meglio rispecchiasse la mia visione del mondo organica e spiritualista. M’imbattei per caso in un lucido preciso pregnante articolo apparso sul Secolo d’Italia del 5 novembre 1990 nel quale si annunciava che Fare Verde (associazione ambientalista che era nata ufficialmente il 17 febbraio 1987 e aveva sede in Roma a via Sommacampagna, 29) aveva lanciato una petizione rivolta al Parlamento per introdurre il vuoto a rendere con cauzione per liquidi alimentari e vietare gli imballaggi in materiale non biodegradabile. 
Era la via maestra, tuttora disattesa dal legislatore, per risolvere il problema dei contenitori e degli imballaggi che costituiscono ben il 40% dei rifiuti solidi urbani. Presi contatto con Paolo Colli, che ne era il presidente, avviando anche a Bari la raccolta di firme con vari banchetti e fondai nel 1991 il gruppo barese di Fare Verde. Ripensavo a tutto questo leggendo nel libro di Adalberto Baldoni “Destra senza veli” (edizioni Fergen) il conciso e compendioso paragrafo dedicato a Fare Verde (pp. 398-402). 
Quest’anno ricorrono ben trent’anni dalla nascita di Fare Verde e non si contano le iniziative, le manifestazioni, i convegni, le proposte di legge (tra cui quella diventata legge sulla messa al bando dei cotton fioc non biodegradabili), di cui l’associazione è stata protagonista. E tutto questo è stato reso possibile dalla straordinaria intuizione che ebbe nel 1986 Paolo Colli e dalla comunità umana che egli seppe mettere assieme per vivere l’ambiente.

martedì 9 maggio 2017

Rossa, Mishima, Ramelli: il fumetto svolta a destra


 da ilgiornale.it
Se la penna è l'arma dei vincitori, la matita può diventare quella dei vinti dalla censura dell'egemonia culturale.

Uscire da un ghetto che, il più delle volte, sta nella testa. Non allinearsi e trovare uno spazio che sia all'altezza del mainstream ma che, per questo, non si corrompa ai suoi dettami, in un'azione di rigenerazione culturale. Ecco la vera sfida che parte del mondo del fumetto italiano vuole vincere proprio in questi mesi. Fascinazioni che già incantarono la destra, con Pratt e Bonelli, con le immagini di Frazetta, Battaglia, Oneto o con le evocazioni fantasy dei fratelli Hildebrandt.
Premesse che all'apparenza riportano ad un mondo confinato in quattro mura, tra disegni frettolosi
e rilegature che neanche il ricettario di Wilma De Angelis meriterebbe.

Eppure i ragazzi sono usciti dalla sezione per riscoprire la tradizione. E la loro voce arriva in libreria a parlare di coraggio, filo conduttore di un universo identitario, in cui il passato è una malinconica visione del presente. Il coraggio degli antieroi, rispetto alla prospettiva moderna, che esplorano i confini del sacrificio. Come Guido Rossa.

«Ho realizzato il fumetto su Rossa perché abbiamo un debito con chi è morto per permetterci di vivere liberi. Per la prima volta le Br uccidono un operaio, un comunista, gettando la maschera; da lì, la definitiva presa di posizione contro la violenza brigatista, che fino a quel punto non c'era mai stata. Rossa fu lasciato solo e visto, inizialmente, come un traditore». Così rinasce la storia di Guido Rossa - l'operaio che le Br uccisero nel 1978 perché non ebbe paura di denunciare la loro infiltrazione tra i lavoratori dell'Italsider di Genova - tramite le parole e i disegni di Nazareno Giusti, un poliziotto di 28 anni, prestato all'arte del disegno. Guido Rossa. Un operaio contro le Br (Round Robin Editrice, pagg. 154, euro 15). Un'opera emozionale, dall'atmosfera gotica, integrata da contributi scritti che approfondiscono i retroscena del delitto e il clima di esasperazione di quegli anni.
Una vicenda «contro», già ripresa da Giuseppe Ferrara nel 2005 con un film, che incontrò notevoli problemi di distribuzione, Guido che sfidò le Brigate Rosse, con Massimo Ghini e Gianmarco Tognazzi.

Ma i figli dell'indifferenza di massa, perché alfieri della parte sbagliata, sono il centro della produzione artistica anche di Ferrogallico, la prima produttrice italiana di fumetti d'autore non conformi. La casa editrice, piccola e già grande, impegnata, nei giorni scorsi, nella presentazione del nuovo fumetto su Sergio Ramelli - giovanissimo militante del Fronte della gioventù ucciso nel 1975 da un commando di Avanguardia operaia -, si avvale di partnership importanti, come quella di Mondadori e Panini. «L'idea è quella di equilibrare l'opera di insopportabile alterazione che il pensiero politicamente corretto opera su alcuni grandi riferimenti culturali», parola di Federico Goglio, responsabile comunicazione di Ferrogallico. Proprio alla vita di uno dei grandi, Kimitake Hiraoka, per tutti Yukio Mishima, scrittore, patriota, romanziere, al disperato amore del guerriero, Ferrogallico sta dedicando un fumetto: «Siamo al lavoro. Sarà la prima graphic novel al mondo dedicata allo scrittore e marzialista giapponese, incentrata sull'ultima notte di vita di Mishima.
Una sceneggiatura dalle atmosfere oniriche, continuamente oscillante tra il presente narrato, la vita passata di Mishima, l'immedesimazione con i protagonisti dei suoi celebri romanzi.

Con questo fumetto, cercheremo di dare vita ad un'operazione di ampio respiro culturale, con l'obiettivo di tradurre l'opera in più lingue, fino ad arrivare a distribuirla in Giappone». In cantiere per Ferrogallico, inoltre, una biografia di Ezra Pound e un fumetto sulla storia di Norma Cossetto, in 48 tavole, a cura di Emanuele Merlino. E allora che si crei il cortocircuito: per andare contro bisogna stare con la testa tra le nuvolette.
 

mercoledì 3 maggio 2017

Il drone da 400 mila euro della nave Ong. Così il sistema privato dei soccorsi umanitari aiuta gli scafisti a far sbarcare i migranti. Tutte le accuse


da notizie.tiscali.it

Era stato molto chiaro il 22 marzo scorso il procuratore di Catania, nella sua prima audizione in Parlamento: «A partire da settembre scorso si segnala l'improvviso proliferare delle ONG che hanno svolto il lavoro dei trafficanti di accompagnare i barconi di immigranti fino al nostro territorio».
E i rapporti degli organismi di investigazione, di polizia, militari europei hanno segnalato in tempo i sospetti dei traffici tra Ong e organizzatori dei viaggi dei migranti, con la probabile riconsegna degli scafi e dei motori da riutilizzare per nuovi viaggi.

Nei dossier e nelle relazioni istituzionali, le navi delle ONG sono diventate un porto d'attracco italiano al limite se non dentro le acque territoriali libiche.
Ci sono i registri delle operazioni di salvataggio che documentano che quasi cinquecento su mille e cinquecento sono stati gli interventi di soccorso delle ONG. 
Con il risultato di poco meno di 45.000 migranti sono stati salvati. Ma quattro di questi interventi - circa mille migranti - sono avvenuti dentro le acque territoriali libiche, anche ad appena sette miglia dalla costa.

Il sospetto di rapporti opachi tra il mondo delle ONG e i trafficanti, confermato dalla conversazione captata tra un equipaggio di nave ONG e trafficanti, e dalle foto scattate da un pattugliatore Eunavformed in cui si vede un gommone di migranti con natante dei trafficanti in attesa dell'arrivo della nave delle ONG, trova ulteriori riscontri nei quattro episodi di salvataggi nelle acque territoriali libiche.

Negli atti giudiziari delle procure siciliane emergono telefonate di soccorso partite dai natanti direttamente su utenze collegate alle navi Ong.
E poi l'imbarazzo se non il disappunto degli uomini Frontex e delle altre organizzazioni internazionali che operano negli Hub dove avvengono le prime procedure di identificazione e di inoltro di richieste di asilo politico, quando avvertono la reticenza nei comandanti delle navi Ong. Poco collaborativi nello spiegare le modalità del recupero dei natanti: salvati i migranti, i gommoni con i motori tornano ai trafficanti.

Nella sua audizione, il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, si domanda del perché del proliferare così intenso di queste unità navali. E di quale ritorno economico, non foss'altro che per pagare i costi delle missioni si realizza? 

Il procuratore Zuccaro ricorda che su 134 navi gestite dalle organizzazioni non governative - a fronte delle tre che operavano nel 2015 - sei sono gestite da cinque Ong tedesche. E che i costi di gestione sono molto elevati. Per esempio, «la nave “Aquarius” - precisa Zuccaro - di SOS Méditerranée spende 11.000 euro al giorno mentre il peschereccio Jugend 40.000 al mese». C'è anche un drone a disposizione di una Ong che l'ha noleggiato per 400.000 euro.

Insomma, la sensazione è che il «sistema» Ong si sia sostituito a Mare Nostrum e Mare Sicuro, i dispositivi della marina militare italiana, della Guardia costiera e della Finanza impegnati nelle acque internazionali confinanti con quelle territoriali libiche al salvataggio dei natanti.

Solo che ora il sospetto è che l'incremento degli sbarchi sia provocato dalla massiccia presenza di assetti navali delle Ong che pattugliano il Mediterraneo spesso dentro le acque territoriali libiche.

martedì 2 maggio 2017

1° maggio a Trieste, stelle rosse in piazza: l’oltraggio alle vittime delle Foibe


da secoloditalia.it

Bandiere con la stella rossa, il simbolo del comunismo, delle Br ma anche dei massacratori comunisti di Tito che fecero strage di tanti italiane nelle Foibe, al confine con la Jugoslavia, alla fine della Seconda Guerra Mondiale: in piazza, a Trieste, il Primo maggio, s’è visto anche questo, insieme a nostalgici della Falce e Martello, anarchici e centri sociali. Un oltraggio alla memoria di tutti gli infoibati, degli esuli giuliani e dalmati e di chiunque abbia vissuto quella tragedia nascosta per anni dalla storiografa ufficiale.

Con la stella rossa una provocazione sulle Foibe

«L’esposizione di questi simboli non piace alla stragrande maggioranza dei cittadini, che ricordano in Tito alla tragedia della Foibe e all’esodo giuliano-dalmata…». Con queste parole i consiglieri di maggioranza al Comune di Trieste, Claudio Giacomelli (Fratelli d’Italia), Paolo Polidori (Lega), Vincenzo Rescigno (Lista Dipiazza) e Piero Camber (Forza Italia) avevano cercato di impedire quello che, purtroppo, è accaduto anche quest’anno: l’oltraggio alla memoria della tante vittime delle Foibe, massacrate dai comunisti di Tito durante la “liberazione” della città da parte delle forze jugoslave al termine della Seconda Guerra Mondiale. I sindacati hanno avallato quella sfilata con “stelle” a cinque punte, utilizzata dal 1917 come un simbolo del comunismo e che nell’ideologia rossa rappresenta allo stesso tempo le cinque dita della mano del lavoratore e i cinque continenti, in relazione con l’internazionalismo marxista. Ma dalle parti di Trieste quella stella significa soprattutto il maresciallo Tito…

Il centrodestra aveva provato ad evitare la sfilata rossa

In piazza, il Primo maggio, c’eranole bandiere jugoslave e della Brigata Garibaldi, i vessili anarchici e di tutte le sigle comuniste, ma in tantissimi avevano anche le stelle rosse di carta portate al collo, mentre uno spezzone del corteo procedeva sotto le bandiere della resistenza curda contro l’Isis, a loro volta con stelle rosse. Nella mozione del centrodestra era tutto previsto: «Negli ultimi anni a Trieste, durante le manifestazioni in occasione del Primo maggio, Festa del Lavoro, tra cui il corteo curato dalle organizzazioni sindacali che si conclude in piazza Unità d’Italia, sono comparsi vessilli e bandiere celebranti la figura del maresciallo Tito, bandiere della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia e altre ostentazioni di stelle rosse, anche sul tricolore italiano». Da lì l’appello alla sensibilità collettiva, del tutto ignorata dai manifestanti.

«Una provocazione per inneggiare al massacratore Tito»

«La voglia di esporre la stella rossa in piazza Unità a Trieste proprio il Primo maggio è la consueta provocazione di chi inneggia al dittatore Tito e vuole manifestare sentimenti anti italiani», ha commentato Sandra Savino, parlamentare e coordinatrice di Forza Italia in Friuli Venezia Giulia. «Evidentemente – prosegue Savino – c’è la volontà di ricordare con affetto un dittatore che ha ucciso 11 mila italiani, un criminale che qualcuno considera un eroe. I titini hanno “liberato” Trieste con il solo scopo di occuparla e chi sostiene il contrario è semplicemente un bugiardo». «Purtroppo – conclude la parlamentare – esistono ancora personaggi che vogliono ricordare questi eccidi senza nessun rispetto e nessuna dignità. Il prossimo anno questo indegno spettacolo si riproporrà fino a quando lo Stato italiano non avrà il coraggio di vietare questa violenza alle vittime delle stragi tutine».

A Sergio Ramelli, Patriota.